Con Griffi sulle ferrovie del Messico

Una mappa ideale del romanzo “Ferrovie del Messico”

«I tedeschi trascinavano il corpo morto dell’Italia furibondi come Achille sotto le mura di Troia, non avevo notizie di Firmino da quando era tornato dalla Russia, mia madre cucinava pietanze che sapevano di polvere e a me restava una settimana per realizzare una mappa ferroviaria del Messico.»

Nel febbraio 1944, Francesco Magetti, detto Cesco, milite della Guardia ferroviaria nazionale di Asti, ha un indomabile mal di denti e un compito tanto perentorio quanto folle: disegnare una mappa delle ferrovie del Messico. L’ordine arriva dal comando di Torino e questo dal comando tedesco che esegue un imperativo categorico di Berlino. Lo spunto narrativo su cui  Gian Marco Griffi scrive circa ottocento pagine sembra esile ma da qui si diramano le voci dei personaggi  e, con loro, decine di storie che intrecciano la sorte del protagonista consegnandoci un romanzo che, nella narrativa italiana di questi anni,  vive in splendida solitudine. Griffi costeggia e cita talvolta esplicitamente alcuni capitoli della letteratura più innovativa del Novecento, avvicinandosi e distanziandosi in questo modo a diversi registri letterari. Non per nulla la postfazione di Marco Drago parla di «romanzo enciclopedico»  chiamando in causa la letteratura postmoderna e il saggio sulla molteplicità di Italo Calvino nelle pagine delle Cinque lezioni americane.

I personaggi e le voci

Calvino  inscrive nella sua analisi una sequenza di esperienze  eterogenee: dal Flaubert di Bouvard et Pécuchet alle diverse scritture che convivono nell’Ulisse di  Joyce  e, avvicinandoci a noi, al mondo di Jorge Luis Borges e all’espressionismo stratificato,  tra lingua colta e dialetto, di Carlo Emilio Gadda.  Ora Griffi, come Joyce, cambia registro di capitolo in capitolo, passa da quello mimetico  e monologante 1, a quello lirico 2, dalla descrizione metaforica e surreale 3 al comico 4, alla lingua d’invenzione 5 e al grottesco con brani che lo avvicinano in un paio di occasioni ad un autore per nulla canonico come Boris Vian.  Ferrovie del Messico utilizza inoltre  tanto il lessico piemontese quanto la locuzione preziosa o  aulica ma lascia prevalere una sorvegliata, comune, lingua d’uso. Questa continua variazione di registro  è però subordinata a un immaginario singolare. Lo scrittore astigiano connette l’espansione della sua storia (Francesco Magetti alle prese con la carta ferroviaria del Messico) alle avventure di profili improbabili: una colta bibliotecaria borderline, due necrofori con un passato di picari in Sudamerica, un bibliofilo aristocratico, due disertori,  un sedicente poeta che classifica la rilevanza degli autori in base al loro suicidio, un impiegato tedesco troppo ligio al dovere, un profilo di Hitler guancia a guancia con Eva in cerca dell’arma letale e risolutiva in una visione del Terzo Reich iù vicina al teatro di Ubu Roi  che a qualsiasi nozione storica. Ma proprio questo è il luogo d’elezione del romanzo. Le avventure tragicomiche di Cesco Magetti con le diversioni e i sentieri intrapresi dalla sua umanità, vivono nel cuore di un immaginario che – attraverso citazione e parodia 6, attraverso la frammentazione dei registri – sembra scaturire da un sentimento di nostalgia per le storie, o meglio… per la tradizione, in una parola per il canone.

Picari, anarchici, poeti

La libertà con cui lo scrittore percorre i sentieri della narrazione scorre  parallela alla libertà dei suoi personaggi: dal protagonista investito dal compito assurdo di redigere una mappa ferroviaria,  all’impiegato tedesco Bardolf Graf che riceve in regalo un libro intitolato  Storia poetica e pittoresca delle ferrovie del Messico, tutti sono in conflitto con l’ambiente circostante. La galleria di Griffi convoca un mondo di emarginati e anarchici per vocazione che marciano sull’orlo del baratro. Il contesto storico, tratteggiato a larghe pennellate, ritrae la precarietà della guerra e dell’invasione, ma è di pari passo caratterizzato da contesti immaginari di cui è esempio eloquente la “Divisione ferroviaria del dipartimento suicidi statali assistiti” nella Berlino del 1943, vale a dire  unna caricatura della burocrazia.

Sulle tracce degli antecedenti che portano il comando tedesco a richiedere una mappa delle ferrovie messicane, l’autore spalanca dunque una porta che, trascorrendo dal comico al surreale, declina l’architettura goffa e pretenziosa del potere. La Divisione ferroviaria tedesca è un palazzo «composto d’un numero indefinito e forse infinito, di piani ottagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, circondati da ballatoi con ringhiere intarsiate a mano» dove si può scoprire l’esistenza di un “Ufficio per il controllo dei regali ai dipendenti”. Il contraltare di tanta architettura sarà invece il club clandestino dell’Aquila agonizzante dove nottetempo si incontra l’umanità di resistenti e fuggitivi astigiani.

Assurdo e postmodernità

Tirando le fila del romanzo, disperse tra le sorti dei personaggi,  le nozioni di assurdo e di comico si legano alla ricchezza del linguaggio e delle storie che si ritagliano capitolo dopo capitolo. Ma vale la pena di soffermarsi sulle implicazioni della scrittura di Griffi. Guido Almansi, citato in postfazione, parlò del romanzo postmoderno di Thomas Pynchon dicendo che esso deve contenere una «analisi dello sfacelo, la coscienza del collasso, una testimonianza della frammentazione, una critica radicale del concetto di verità». Sembra una descrizione parziale dell’atmosfera e del modo di procedere di Ferrovie del Messico. Parziale perché i registri usati e i punti di vista  (si parla in prima persona o in terza e a raccontare sono tanto i personaggi contemporanei alla vicenda quanto quelli citati e vissuti in un tempo precedente) trovano un accordo unanime nel disegno complessivo, nel piacere dell’affabulazione in sé e nella nostalgia di un tempo capace di produrre avventura. E’ forse anche ciò che si avverte in certe pagine di Roberto Bolaño, in qualche caso (I detective selvaggi) analogamente segmentate. Ma i luoghi d’elezione della postmodernità si identificano altrove: in Rayuela di Cortázar, nel Georges Perec di La vie mode d’emploi , nel Calvino de Il castello dei destini incrociati  dove è sempre qualificante la leggerezza del gioco combinatorio: pagine dove intelletto e immaginario vivono, algidi, lontano dalla fisicità e dall’emozione e dall’esperienza. Rispetto a quest’ultima biblioteca ideale Gian Marco Griffi  si smarca. Le sue pagine richiamano una fisicità fortemente connotata e referenziale;  l’eterogeneità delle voci non si offre mai come gioco intellettuale o digressione concettuale.  Il registro del comico convive con l’iperbole dell’immaginario, il “parlato” include tanto lo gnommero di Gadda e le preziosità quanto il lessico piemontese (un glossario esemplificativo vi include: il gheddu, cioè il guizzo intellettuale; rancare per estirpare;  frustacadreghe per pigrone). E come una promessa di poetica, uno dei suoi personaggi, Tilde, dice: «Essere lirici e ironici è la sola cosa che ci protegge dalla disperazione assoluta. Io abito il mio lirismo, Cesco, per continuare ad amare la vita».

Griffi ci suggerisce di amare la narrazione come le ama lui. Scrive per Ferrovie del Messico  un sottotitolo esplicito: Romanzo d’avventura; insiste sulla centralità dell’atto narrativo nella sua valenza più essenziale. E in questo contesto scrive la pagina conclusiva del romanzo qualificandola come “Seconda parte”.  Venti righe, non di più, in cui l’autore annuncia la prosecuzione  delle vicende in Messico, in Argentina  e altrove.  Griffi insomma è ben lontano dal fornire una riproposta della narrazione postmoderna. Ferrovie del Messico viceversa ne usa la strategia e alla biforcazione del sentiero prende una strada affatto diversa. Di questo romanzo sentiremo parlare a lungo.

Marco Conti

Gian Marco Griffi, Ferrovie del Messico, pp. 816, Laurana Editore, 2022; euro 22,00

*

1. «E insomma hanno ordinato per me un panino al prosciutto, senza neppure sapere se mi piacesse, il prosciutto, fortuna che ne sono ghiotto, e me lo hanno fatto mangiare in santa pace, mentre lo mangiavo ho pensato a cosa significasse essere un tipo solitario, ma quello che teneva la sigaretta spenta ha interrotto il flusso dei miei pensieri». Pag. 87

2. «(…) è il cinquantadue e nascosta in soffitta leggi un’altra cartolina mentre Dio ha fatto un temporale che esplode sopra i tetti, i tuoni rimbalzano sulle tegole come palloni calciati dalla luna, il vento uggiola tra le imposte e strilla tra le chiome degli alberi, le travi cigolane e le voci umane si confondono nel battito martellante della grandine sui coppi e sui teloni della serra». Pag. 283

3. «Mario Emilio Camillo Bertone venne al mondo il sedici dicembre, mercoledì, una notte che la luna era simile a un seme di girasole, accanto a un fiume dispiegato nella bordura delle colline; si narra fu accolto nelle pianure ubriache di vino fumante e perforato dal trapano dell’amore, in cinque minuti scarsi fu strappato dall’ombra, venuto nel mutismo delle allodole e delle cicale, nel mortorio degli insetti, subito fu braccato dal freddo e lambito dai lupi». Pp. 336-7

4. «Questa cosa del Partito nazionalsocialista, domandò Eva, è un lavoro vero? Talvolta me lo chiedo anch’io, disse Adolf. E mi rispondo che no, non è un lavoro. Eì una vocazione. Baciami, testone, disse Eva».p. 224

5. «Allora ho inforcato le barde di mocoletto e mi sono sporto per allumarla meglio, e che i viscosi (…)» P. 139

6. «E allora adiόs, mi querida Norah, adiόs, lascia che vada ora, per certi angiporti celati da cespugli di lentischi spinosi, e siepi di cosmee gialle e azzurre, mil veces adiόs, lascia che viva in sbandati ricoveri nelle stanze pulciose di motel fuori mano dove misuro la mia vita con palle da tennis squarciate e bicchieri vuoti (…) ». P. 624. Griffi fa la parodia dei primi celebri versi de “Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock” di  T.S. Eliot nella traduzione di Roberto Sanesi:  

«Allora andiamo, tu ed io,

Quando la sera si stende contro il cielo

Come un paziente eterizzato disteso su una tavola;

Andiamo, per certe strade semideserte,

Mormoranti ricoveri

Di notti senza riposo in alberghi di poco prezzo

E ristoranti pieni di segatura e gusci d’ostriche (…)»

14 parole per fare un Simenon

La frase breve e limpida è sempre stata un modello di riferimento. Così pretendeva Hemingway nei suoi racconti e con questo modello si è sentito a suo agio Raymond Carver. In modo diverso lo stesso è valso per Georges Simenon. A questo riguardo, tra gli scrittori più vicini a noi si potrebbe citare, Agota Kristof oppure, in certi romanzi (e solo in quelli), Italo Calvino. Non è d’altra parte il caso di spendere del tempo per dire che, se la brevità è attributo richiesto nel giornalismo, non lo è affatto in letteratura.
L’economia di un testo può essere sopravanzata da altre necessità di registro di carattere autoriale, e da circostanze insondabili per le quali solo l’esito ha significato. E’ sufficiente pensare a Proust, a Virginia Woolf,  a Céline, a Faulkner, a Gadda e a tantissimi altri.
Ma sembra indubbio che un testo “economico” sia più facilmente leggibile senza per questo essere superficiale. Un esempio? Samuel Beckett, accanto a tutti i romanzieri citati, compreso Simenon  la cui scorrevolezza non nega affatto originalità e profondità, benché in passato alcuni critici francesi abbiano voluto relegarlo nell’ambito dei romanzieri “popolari”.
Ma poiché si parla di lunghezza e brevità, il dettaglio filologico è cruciale. Nel merito una insolita analisi statistica dice come hanno scritto i romanzieri di lingua francese e quale sia il numero di parole per cui ha senso parlare di brevità. Mi rifaccio alle analisi quantitative eseguite da François Richaudeau: Simenon: une écriture pas si simple qu’on le penserait. In: Communication et langages, n°53, 3ème trimestre 1982. pp. 11-32. A questo studio rinvio per una verifica più dettagliata e più ampia.
E’ evidente che l’analisi compiuta non ci dirà nulla sulla qualità estetica, ma non così sul carattere degli autori e persino su come hanno scritto al di là degli esiti numerici. Anzi, percorrere questa strada, riserva una grossa, enorme, sorpresa.

Come è stata fatta l’analisi

Di Georges Simenon sono state inventariate 238 opere narrative tra il 1929 e il 1972; altre sono state scritte dall’autore con pseudonimi (durante la giovinezza di cronista in Belgio e poi in Francia) e altre ancora sono state create dopo questa data. In quel periodo la media dell’autore è di sei romanzi all’anno; seicento milioni sono le copie vendute in 55 lingue diverse.
Richaudeau ha proceduto analizzando 25 romanzi, esaminando 192 frasi all’interno di ogni volume e sempre trattenendo la prima, l’incipit. E’ così arrivato a 4799 frasi che davano luogo a 72.245 parole.
Non contento di questa delimitazione l’autore ha preso in esame la cronologia già selezionata per ricavare dieci titoli: due dal ’40 al ’41, due dal ‘50 al ’51 e così via fino al ’72 badando di alternare un romanzo a un poliziesco, cioè un Maigret.
 Ed ecco come è stato calcolato il numero di parole per quella che è una astrazione, cioè la frase di lunghezza media. Lo studioso ha preso in esame tutte le parole di ogni frase e ha diviso la cifra per il numero di frasi.

Il fraseggio dello scrittore

La conclusione è che Simenon risulta tra gli autori più stringati di tutta la letteratura francese: la media è di 12, 6 parole per frasi correnti (esclusi i dialoghi). La media sale a 14, 1 con il romanzo per il quale ha impiegato più tempo e al quale teneva di più, cioè  Le campane di Bicêtre e a 20 parole di media per la frase-tipo di La finestra dei Rouet, scritto in concomitanza con  l’autobiografico Pedigree.
Questa circostanza sembra casuale ma non lo è. Infatti tutti i sei libri autobiografici di Simenon hanno un periodare decisamente più ampio. I tre delitti dei miei amici ha una lunghezza media di frase di 20, 3 parole; Per Pedigree (prima parte) 14, 3; per Pedigree  seconda parte 20, 7; la terza parte 19, 4 ; Memorie intime, 18, 8; Mi ricordo, 17.  Inoltre nella prima parte di Pedigree la lunghezza media tra le frasi più lunghe (quindi calcolate a parte) è di 88 parole e di 78 nella seconda parte.

Il ruolo della memoria

 Questa perlustrazione va tuttavia oltre gli obiettivi previsti: sia in rapporto ad altri autori contemporanei, sia in relazione ai temi. Richaudeau ha infatti scoperto che l’autore di gialli e di noir diventa straordinariamente più prolisso quando parla dei propri ricordi e del sonno o del sogno.  I libri autobiografici dell’autore belga hanno impennate di periodi lunghissimi,  raggiungendo in una frase fino a 187 parole. In breve la frase analitica, ipotattica di Proust, e quella di Simenon, risultano ugualmente complesse e concentriche quando si tratta di raccontare la propria memoria, vale a dire l’oggetto per eccellenza di Marcel Proust.
«E’ sorprendente – scrive Richaudeau  – che analizzando le frasi di Marcel Proust, abbia rilevato le stesse correlazioni fra la lunghezza e i temi: i ricordi, il sonno».
E’ l’unico dato così eclatante emerso da questa indagine, quando viceversa non risultano differenze sistematiche tra i gialli di Maigret e quelli di altri romanzi scritti da Simenon nello stesso periodo. Il che sembra suggerire un dipendenza dal tema per le scelte stilistiche o comunque consuetudinarie. Lo studioso si  è chiesto se Simenon non si sentisse prigioniero di automatismi psichici, di un flusso – in sostanza –  inconscio ma «implacabile, di esteriorizzazione della scrittura». Il nucleo semantico si imporrebbe così prescindendo dalla sua formalizzazione.
Riferendosi all’autore di Maigret, si è talvolta parlato, inoltre, di “processo medianico” della scrittura. I suoi riti prima di mettersi alla macchina, i brevi sonni per almeno 15 giorni durante la stesura, sembrano avere un ruolo. Ma di questo parlerò in un altro momento.
Vale la pena invece riportare i dati  inerenti gli stili di altri scrittori.

Le frasi più lunghe: Descartes e Proust

Il primato delle frasi più complesse non è di un romanziere ma di un filosofo: René Descartes. L’autore del Discorso sul metodo non temeva i periodi labirintici: la lunghezza media della frase comprende ben 74 parole; Rabelais si accontentava di 25; Michel de Montaigne, scrittore moralista del Cinquecento, si serviva mediamente di 30 parole.
L’autore che dà convenzionalmente l’avvio al romanzo moderno, Gustave Flaubert,  scrive Madame Bovary usando 22 parole per frase, tranne nei dialoghi, che risultano più lunghi come avviene per tutti gli altri autori esaminati. Stendhal per il Rosso e il Nero ne aveva usate 25.
Ed ecco qualche curiosità del Novecento francese: il filosofo Bergson usa 30 parole per la sua Evoluzione Creatrice contro le 22 di Paul Valery, le 15 dei romanzi di Jean Giono, e le 12 del giallista Frédéric Dard con il suo Sanantonio, tra i più celebrati negli anni Sessanta e stringato, evidentemente, più di Simenon.
E l’autore della Ricerca del tempo perduto? Al di là di quanto abbiamo scoperto a proposito delle narrazioni sulla memoria, la media di Proust è di 43 parole. Un tuffo nelle profondità come una lunga apnea. Ma sempre, si direbbe, con una stella marina da riportare in superficie.
 
Marco Conti
  © Riproduzione riservata

Il Maigret per il cinema anni Cinquanta, interpretato da Jan Gabin (alla sinistra nell’immagine)
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