
La poesia di Pierre Reverdy ha il fascino di certe immagini per un attimo baluginanti su uno schermo: distanti ed eloquenti sembrano chiederci una storia che continuamente evitano, aggirano, sottraggono. Una strada sconosciuta, il vento, un muro, il suono di una voce, «ces paysages confus ces jours mystérieux». Il mondo scorre, come su uno schermo, senza che vi sia la possibilità di conoscerlo davvero. Reverdy stesso lo ha detto: « La poesia è il legame tra me e il reale assente. E’ da questa assenza che nascono le poesie».(En Vrac, Mercure de France, 1989) E ancora: «La poesia è in quello che non c’è. In quello che ci manca».

C’è nei versi di Reverdy l’incanto dell’immagine ma questa seduzione nasce nel suo avvertire l’ impenetrabilità del reale, la divisione tra il sé e il mondo. Le finestre da cui guarda, non meno dei sentieri che percorre, delimitano una alterità dello spazio che è soprattutto una alterità dell’anima. Il reale resta un luogo sconosciuto, un “al di là” oltre la superficie ingannevole delle apparenze, della materia e delle illusioni.
Soprattutto dopo l’esperienza parigina, la poesia di Reverdy sarà quella di un contemplativo che prende a piene mani dalla natura per distillare immagini nette, per dire l’immateriale e l’ansia di assoluto. Nondimeno l’immaginario della sua poesia fu una delle esperienze più importanti precedenti il surrealismo benché del tutto autonoma.
Increspature del tempo

Più grido più il vento è forte
La porta si chiude
Trascina pelliccia e piume
E la carta che vola
Corro sulla strada dietro le foglie
Che s’involano
Il tetto si solleva
Fa caldo
Il sole è una calamita
Che ci sostiene
Chilometri distante
Mi piace il rumore che fai
Con i piedi
Mi si dice che corri
Ma non arriverai mai
Il vecchio cultore d’arte ha un sorriso idiota
Falsario e scassinatore
Una bestia nuova
Gli fa tutto paura
Inaridisce in un museo
E partecipa alle esposizioni
L’ho messo in un volume sull’ultimo scaffale
Non cade più la pioggia
Chiudi l’ombrello
Che possa vedere le tue gambe
Illuminarsi al sole
Increspature del tempo, trad. M. Conti da “ La lucarne ovale” (1916)
Strada
Sulla soglia nessuno
Oppure la tua ombra
Un ricordo che rimarrà
La strada scorre
E gli alberi parlano più vicini
Cosa c’è dietro
Un muro
delle voci
Le nuvole che s’alzarono
Nell’istante in cui passavo là
E lungo una transenna
Dove stanno quelli che non entreranno
“Strada”, trad. M. Conti da “Les ardoises du toit” (1918)
La vertigine di vivere

Le figure attraverso cui scorrono i versi sono strutturali: il cielo, il giorno, la notte, il mare, il moto dell’aria. Elementi che non rinviano mai alla loro fisicità ma che vivono, indefiniti, nella tensione dello spazio. Così gli amori, la soggettività, i “tu” che si affacciano frequenti nell’opera, escludono ogni confessione e contingenza per partecipare a questa vertigine del cosmo e del nulla: «Tutto ciò che mi somiglia- scrive Reverdy- scappa nello stesso senso».
da Marco Conti, “Questi giorni misteriosi”, in La mosca di Milano, n. 19, 2008

Biobibliografia
Pierre Reverdy fece i suoi studi al liceo di Tolosa e al collegio di Narbona. Nel 1907 gli affari di famiglia subirono un tracollo e tre anni dopo Pierre partì per Parigi dove trovò lavoro come correttore di bozze. La collina di Montmartre (abiterà in rue Cortot accanto alla più famosa rue des Saules, uno dei pochi angoli che non sono stati del tutto stravolti dal tempo) lo avvicinò alla cerchia di pittori e scrittori cubisti: Picasso, Braque, Apollinaire, Gris, Jacob. In quello stesso periodo conobbe André Breton e Louis Aragon. Furono anni cruciali sotto il profilo letterario ma estreamente duri nella vita quotidiana. Nel 1915 raccolse le sue prime poesie col titolo Poèmes en prose, l’anno dopo pubblicò La lucarne ovale che introdusse con queste parole: «In quel tempo il carbone era diventato prezioso e raro come pepite d’oro ed io scrivevo in un solaio dove la neve cadendo tra le fessure del tetto diventava blu». Intanto Reverdy si era impegnato come volontario al fronte prima di essere riformato, nel 1916.

Nel 1917 pubblicò Le voleur du talan (Il ladro di talento, un poema in Italia tradotto da Antonio Porta per la collezione bianca di Einaudi); nel 1921 Coeur du chêne, quindi Cravates de chanvre, Les Epaves du ciel, Ecumes de la mer, sequenza che poi confluirà in Plupart du temps (1945). Nel 1926, abbandonata Parigi, scelse di vivere nelle vicinanze dell’abbazia di Solesmes in seguito a una propria radicale scelta religiosa. Trascorrerà qui il resto della sua vita, tranne qualche viaggio a Parigi, in Italia, Grecia, Spagna, Inghilterra: percorsi che non lasceranno sensibili tracce nella poesia. La sua produzione continuò tuttavia con numerose raccolte, riflessioni sulla poesia e un romanzo. Tra le sue opere: Grande Nature, La peau d’homme (romanzo), Pierre Blanche, Ferraille, Plein verre, Le chant des morts con 125 litografie di Picasso e alcune prose autobiografiche: Le gant de crin, Le livre de mon bord, En vrac.