Scrittori, pirati e librai al tempo dei Lumi

Quando Voltaire, nel 1770, dà alle stampe una delle sue opere filosofiche più importanti, Questions sur l’Encyclopédie, si apre per gli editori l’ennesimo interrogativo…Sarà un’edizione definitiva o Voltaire apporterà continue aggiunte rivendendo il manoscritto corretto come è sua abitudine? Il dubbio è più che legittimo e, da solo, illumina il mondo delle tipografie e delle edizioni pirata che contrassegnano proprio il secolo dei Lumi. Ne parla Robert Darnton, il maggiore studioso dell’argomento, in una ricerca storica che come i suoi libri precedenti racconta i rapporti tra potere, leggi, autori, e l’avventurosa circolazione dei libri in Editori e pirati.  Darton si era già diffuso in ampi studi dedicati al Settecento francese dell’editoria. A cominciare proprio dai libri proibiti e dalle complesse sorti dell’Encyclopédie di D’Alambert e Diderot. Nella sua nuova ricerca (in origine uscita nel 2021 con la Oxford University Press) si basa in gran parte sugli archivi e sulla corrispondenza di una delle più importanti tipografie europee, la STN di Neuchâtel, in Svizzera.

E’ la STN che un bel giorno chiede ad un altro editore e mentore, l’olandese Gosse, il parere circa la pubblicazione delle “Questions” di Voltaire. L’editore svizzero fa presente che è lo stesso Voltaire ad aver fatto pervenire i manoscritti originali. E Gosse fa salti di gioia: «Questa impresa è oro puro…Vi dico fin d’ora che ci impegniamo a prenderne un gran numero…». Ma la faccenda è più complessa. Infatti lo scrittore ha già dato i primi manoscritti dell’opera, suddivisa in diversi volumi, all’editore ginevrino Cramer e quando l’olandese lo scopre, scrive al suo corrispondente che, per quanto riguarda il suo ordine, dovrà essere più cauto. Furbescamente Voltaire aveva così moltiplicato il suo guadagno e ottenuto nel contempo di arricchire i testi. D’altro canto l’edizione della STN sarebbe apparsa dopo, riducendo i profitti ma con guadagni tra i più alti che un editore si potesse aspettare vista la fama dell’autore. Il caso di Voltaire era però l’eccezione alla regola perché, in genere, le opere che uscivano da quei torchi, svizzeri o olandesi, contavano su due fattori cruciali: il manoscritto era copiato e dunque senza costi e avrebbe avuto libera circolazione.

Leggi e pirateria

Durante l’Ancien Régime il commercio librario era soggetto a condizioni che non prevedevano alcun copyright. Non c’era né libertà di stampa, né royalties da pagare e neppure resi. Quasi nessun autore viveva di quello che scriveva. Mercier, uno degli scrittori di maggior successo della fine del XVIII secolo, contava appena trenta scrittori che come lui potevano vivere dei loro libri. Ora, libro di Darnton, entra tra i meccanismi dell’industria culturale del tempo. Ma va annotato fin d’ora che in quegli anni il francese        era già divenuto la lingua franca d’Europa sostituendo il latino.

In genere si tende a far risalire la comparsa dell’editoria al primo ‘800, viceversa Darnton spiega che la realtà è diversa perché i librai-stampatori proliferano in gran parte dell’Europa. Tuttavia il concetto di proprietà intellettuale e quindi di pirateria risultava ambiguo. Proprio nell’Encyclopédie  la pirateria letteraria è riferita a chi ristampa un testo «con pregiudizio di colui che possiede in virtù di una cessione di proprietà resa pubblica  e autenticata del privilegio del re o da una lettera equivalente.»

Con ciò l’ Enciclopedia faceva sua la posizione della Corporazione dei librai di Parigi, secondo la quale l’autore detiene il diritto di proprietà dell’opera e può trasferirlo inalterato al libraio per venderla. Per questo tipo di bene la Francia dell’epoca (diversamente dall’Inghilterra che riconosce una norma di copyright dal 1710) dipendeva dai privilegi erogati dalla Corona. La Corporazione aveva a sua volta una struttura legale atta a chiedere il privilegio, volta per volta, per ogni manoscritto che dal momento dell’assenso diventava di proprietà del libraio che l’aveva acquistato di norma dall’autore. Ma tutto questo era naturalmente ininfluente per i paesi stranieri che di conseguenza diventarono stampatori di opere francesi, senza nessuno sforzo se non quello di trovare i mezzi di diffusione del libro oltre i rispettivi confini. Gli olandesi per esempio all’interno del loro paese contavano sul “diritto di copia” che rispettavano per reciproca garanzia.

Immanuel Kant

E’ interessante, come contrassegno della sensibilità degli autori, ciò che scrive Kant ancora nel 1797 in Metafisica dei costumi. Il filosofo tedesco si chiede cosa sia un libro e risponde che «è l’espressione dei pensieri di un autore» senza porsi la questione inerente la proprietà; il libraio è quindi la figura delegata a vendere il libro e a parlare in nome dell’autore. Un parere che sembra essere quello vantato dai librai-stampatori (il termine “editore” entrerà in uso infatti solo nel primo ‘800). I libri che venivano pubblicati erano molto costosi e diretti ad una fascia di pubblico elitaria. Basti pensare che un artigiano guadagnava 30 soldi al giorno e che questa cifra corrispondeva a l prezzo medio di un volume in ottavo di circa 200 pagine.  Il mercato francese era dunque dominato dai librai parigini mentre in provincia circolavano soprattutto opere di interesse locale, racconti popolari a fascicoli e libri di carattere liturgico. Anche per questo gli  stampatori e i rivenditori di provincia divennero tra i maggiori acquirenti delle opere pirata provenienti dall’estero e di costo decisamente più basso, come lo furono per i libri censurati e diffusi sous le manteau. Le stesse idee degli illuministi finirono paradossalmente per essere divulgate da questa produzione proveniente per lo più dall’estero, come era già accaduto per gli opuscoli dei protestanti e degli ugonotti.  In breve, secondo Darnton, la metà dei libri in commercio in Francia tra il 1750 e il 1789 erano opere piratate.

La geografia delle edizioni pirata

I libri entravano in Francia da diverse città straniere. I centri più attivi erano Amsterdam, l’Aia e Maastricht in Olanda; in Svizzera svolgevano un ruolo preminente Ginevra, Losanna e  Neuchâtel dove era altrettanto cospicua la presenza di tipografie con decine di torchi; in Belgio le opere pirata arrivavano da Bruxelles e Liegi e inoltre da principati come Bouillon e Neuwid. In genere gli “editori” possedevano non solo i torchi ma anche una o più librerie mentre si appoggiavano ad altri soggetti per il deposito e la distribuzione. Ma ciò che contribuì in maniera decisiva a creare un terremoto politico-culturale furono le proteste dei librai-stampatori esclusi dai  privilèges parigini: librai che talvolta non solo vendevano ma copiavano i manoscritti come all’estero. Lione era la città più coinvolta con 43 stamperie, ma lo stesso disagio e il ricorso a produzioni pirata coinvolgeva Rouen, Lille, Metz, Strasburgo e Besançon, mentre Avignone deteneva il primato nel sud.

I librai di provincia e di città importanti come Lione contestarono che il pubblico dei lettori era aumentato e che gli autori non potevano semplicemente trasferire a una sola persona il diritto esclusivo di stampa. Denis Diderot fu forse il primo intellettuale francese a rendersi conto dell’assurdità quando scrisse in un passo delle sue memorie: «Quale proprietà apparterrà mai a un uomo se un’opera del suo ingegno, il frutto unico della sua istruzione, dei suoi studi, delle sue veglie, del suo tempo, della sua ricerca (…) se i suoi stessi pensieri, i sentimenti del suo cuore, la parte più preziosa del suo essere, quella che non perisce, quella che lo rende immortale, non gli appartiene?»

La sconfitta della Corporazione dei librai parigini

Nel 1777 la Corona si mostrò dunque più vicina alle osservazioni dei contestatori. Venne redatto un codice di sei editti con l’intento di favorire la concorrenza, il pubblico dei lettori e gli autori dando loro il permesso di vendere direttamente i libri o di incaricare i librai. Ma gli aspetti che questa regolamentazione cerca di razionalizzare, osserva Darnton, sono tanti e alla fine gli editti finiranno per inasprire la battaglia. Si chiedeva agli stampatori di registrarsi al costo di 30 soldi, si imponeva alla chambre syndicale della Corporazione parigina di tenere due aste pubbliche all’anno per i privilèges e le giacenze; si dava incarico ai funzionari delle corporazioni di ispezionare tutti gli invii dei libri e confiscare quelli proibiti o piratati e si limitava la durata dei privilegi di ogni libro sino alla morte dell’autore. Infine il sesto editto legalizzava tutti i libri piratati detenuti a patto che fossero registrate le contraffazioni presenti in magazzino.

Un deciso passo in avanti benché lo status giuridico continuasse a provenire dalla grazia del re. Ma la risposta dei librai parigini fu perentoria. Dapprima chiese il ritiro del codice col sostegno del rettore dell’Università di Parigi e delle vedove che avevano ereditato i diritti di numerosi libri in commercio. La Corporazione si rifiutò poi di timbrare i libri come era consuetudine,  ma senza alcun effetto visto che ogni libraio doveva consegnare la prova della titolarità del suo “privilegio”. Fallite tutte queste proteste i parigini ricorsero all’avvocato del Consiglio del re senza ottenere risposta; infine si fece intervenire il Parlamento che però non aveva alcun potere di decidere sugli editti reali.  Il codice rimarrà di fatto  in vigore fino ai giorni della rivoluzione. Alla Corporazione non restò che dare filo da torcere ai librai con numerose ispezioni.

La produzione libraria e il gusto del pubblico

I documenti rintracciati da Darnton dicono inoltre in modo eloquente quale fosse il paesaggio dell’industria culturale parigina, al di là della pirateria. Le ispezioni della Corporazione dei librai coprono 37 tipografie per un totale di 297 torchi e 850 operai. Uno di questi rapporti nel maggio del 1769 mostra che erano in stampa 191 libri e tutti tranne 19 avevano ottenuto un privilège. «I restanti – scrive Darnton – avevano ricevuto permission tacites, un escamotage per consentire a un maggior numero di libri di circolare senza incorrere in sanzioni ufficiali.» Uno di questi taciti consensi era per La Nouvelle Heloȉse di Rousseau e gli altri per romanzi o saggi nessuno dei quali «sfidava apertamente le autorità costituite» anche se la monarchia non aveva voluto concedere il suo esplicito assenso. Le opere più numerose in fase di stampa sono  quelle religiose (42 in tutto) tra trattati morali, messali, libri d’ore; seguono  24 libri di storia, 5 di viaggi, 22 testi scientifici, 13 traduzioni di classici, 6 opere di narrativa, 9 di teatro, 2 di filosofia. Un panorama letterario senza macchia. L’ Encyclopédie, supportata da un influente membro della Corporazione venne pubblicata senza privilegio così come la Lettre sur le aveugles di Diderot.

Tra la corrispondenza della STN svizzera e il mentore olandese Gosse, titolare di una grande stamperia, emerge però una considerazione che parrebbe una manfrina dell’ impresa editoriale del XXI secolo. Rispondendo agli “editori” di Neuchâtel, Gosse scrive: «Oggi, Monsieur, è assolutamente necessario conformarsi al gusto corrente, al gusto del pubblico, nel condurre i propri affari. Su questo spesso gli uomini di lettere s’ingannano. Un libraio con una vasta attività commerciale è assai più qualificato di uno studioso per valutare il gusto del pubblico.» Anche il business della pirateria non era in sostanza per nulla scontato. Ma né Gosse né alcun altro libraio e stampatore del tempo avevano come potenziali lettori il 70 per cento della popolazione e, soprattutto, l’omogeneità del gusto del pubblico non era una meta sponsorizzata da nessuno se non dalla Corona.

Marco Conti

Robert Darnton, Editori e pirati. Il commercio librario nell’età dei lumi, trad. S. D’Onofrio, pp. 491, Adelphi, 2023; euro38,00

 

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