Il saggio di Duccio Demetrio “La vita si cerca dentro di sé” consente di fare il punto su un genere i cui confini informano la letteratura più alta

«Mi impegno in un’impresa senza esempio, e la cui esecuzione non avrà imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo nella nuda verità della sua natura; e quest’uomo sarò io. Io solo. Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di quelli che ho incontrati; oso credere di non essere come nessuno di quanti esistono. Se non valgo di più, sono almeno diverso.» Così Jean Jacques Rousseau inizia Le Confessioni. In epoca moderna è il primo a percorre la strada dell’intimità personale, del non detto. Bisogna risalire ai Tristia di Ovidio per avere qualcosa di simile, atteso che Le confessioni di Sant’Agostino sono storia intellettuale e storia di una conversione scritta in forma di dialogo. Per la verità due esempi meno fortunati sotto il profilo critico ci sono: la Vita scritta da esso di Vittorio Alfieri e la Storia della mia vita di Giacomo Casanova. Ma queste ultime sono più propense a raccontare le vicende e i sentimenti dei due autori più che a frugare sotto le maschere della personalità. Il romanticismo non potrà che tenerne conto. Ma tutte tre le autobiografie hanno in comune un attributo non casuale: verranno stampate dopo la morte degli scrittori. Rousseau morì nel 1778 e Le confessioni saranno editate in due parti nel 1782 e nel 1789. Del resto, quando provò semplicemente a leggerne alcune parti nella casa della contessa di Egmont venne richiamato dalla polizia che gli proibì letture di questo genere. Infine, il libro non sarà mai concluso: quello che leggiamo è un libro interrotto.
Alfieri e Casanova

Una storia altrettanto burrascosa sarà quella dell’autobiografia di Casanova che, per le implicazioni, cioè il cosiddetto libertinaggio, sarà pubblicata integralmente solo nel 1960 (edizione Plon), nonostante gli aiuti di un principe, e la levatura del personaggio, corrispondente di Goethe e di Voltaire. La “Vita” di Vittorio Alfieri, scritta con una immediatezza di linguaggio che meriterebbe di figurare tra le opere narrative più importanti a livello europeo, ebbe diversa e uguale sorte. Scritta tra la primavera del 1790 e il marzo 1798 (perché sospesa e ripresa in una secondo tempo) fu nuovamente abbandonata e ancora ripresa nel 1803, l’anno della sua morte. Come le precedenti fu stampata post mortem, vale a dire tre anni dopo. Tra i primi a notare la bellezza del testo fu Giacomo Leopardi che annotò i neologismi, le invenzioni lessicali di Alfieri: “odiosamata signora”, “spiemontesizzarsi” “gallicheria”. Dal canto suo l’autore così commento la sua scrittura: «Io penso di lasciar fare alla penna, e di pochissimo lasciarlo scostarsi da quella triviale e spontanea naturalezza, con cui ho scritto questa opera, dettata dal cuore e non dall’ingegno». Un appunto che, a posteriori, dice più di quanto non voglia e inscrive l’opera nella modernità del romanticismo europeo.
La verità delle Confessioni
L’esegesi dell’opera di Rousseau ha messo in evidenza qui e là, a dispetto della premessa di sincerità dello scrittore, gli “aggiustamenti”, le esagerazioni, le ellissi sul vissuto dell’autore, alcuni errori contestati dalle testimonianze, ma questo corollario autobiografico – di fatto – sembra il segno flagrante delle intenzioni. La loro autenticità sotto la scorza del vissuto è indubbia. Le “confessioni”, per quanto non avvertibili con l’inquietudine di Rousseau, si mostrano con la disposizione della sua scrittura: talvolta comica quando ci dice, per esempio, che ha tentato bambino di suicidarsi mangiando l’erba; ora tragica, quando invece dà conto di un altro tentativo di suicidio, quando è ferito e cerca di dissanguarsi sfasciando le bende. C’è qui insomma il carattere della narrazione moderna con il mezzo dell’autobiografia. Come nel romanzo dell’Ottocento si staglia il profilo dell’individuo sotto la maschera della personalità e contro l’ambiente; c’è soprattutto la personalità che avverte il desiderio di rivelarsi. Né Le memorie d’Oltretomba, di Chateaubriand (1849-50), né la biografia protofemminista Storia della mia vita di George Sand (1855) dove la scrittrice si racconta con i viaggi e il suo apprendistato letterario come sia stato importante non essere né bella né brutta, hanno lo stesso grado di ricerca interiore pur essendo mozioni dell’interiorità.
Soggettività e incertezza: un saggio di Duccio Demetrio
Con i romantici, l’autobiografia approfondisce la soggettività, ma facendo questo rende anche più problematica e interessante la questione del vero e, con questa, il confine tra il vero e la finzione, tra l’autobiografia e il romanzo autobiografico ma, sopra ogni cosa espone implicitamente la riserva che si possa scrivere la propria vita senza fornire in realtà la sua metafora.
Il Novecento assume questa eredità. Inequivocabile è l’appunto di Franz Kafka: «Io sono ciò che mi sfugge». Così come l’annotazione seguente nei Diari: «La battaglia della propria vita con il suo infinito va e vieni, non può essere colta da nessun essere umano con un solo colpo d’occhio per conoscere l’esito e giudicarlo». Lo ribadisce il saggio di Duccio Demetrio La vita si cerca dentro di sé. Lessico autobiografico (Mimesis) che a proposito della nota kafkiana scrive: «(ciò) ci rammenta che ogni presa di coscienza individuale del nostro stare al mondo rinvia a qualcosa di inafferrabile. Se tendiamo alla comprensione del senso della vita, se cerchiamo di conoscerci spassionatamente ammettendo che la vita, quella vera, è dentro di noi.»

I confini tra letteratura e testimonianza
Nel corso del tempo la testimonianza ha preso le strade più diverse: nel Rinascimento era in uso il Libro di Famiglia, una recensione non equivocabile dei natali, dei domini e delle professioni del ceto più abbiente. Persino le celebri Mémoires di Saint- Simon, tra Seicento e primo Settecento, hanno valenza soprattutto storica essendo informazioni argomentate delle vicende della corte di Luigi XIV e Luigi XV (pubblicate solo cento anni dopo la sua morte) in ben 43 volumi. Eppure la prosa fluente e inarrestabile di Saint-Simon, i suoi dettagli, piacquero a Marcel Proust che di certo non aveva predilezioni per l’esegesi storica. Duccio Demetrio non compie nel suo libro perlustrazioni storiche sul genere ma mostra quanto i nodi che «abitano la questione autobiografica» siano ben stretti al di là delle definizioni di genere e dell’atteggiamento della critica letteraria nel merito.
Il romanzo

Il testo ormai obbligatorio per la filologia del genere, Il patto autobiografico di Philippe Lejeune, scritto nel 1975, rileva il dato essenziale e discriminante: l’autobiografia dovrebbe comportare l’identità del nome dell’autore (quello che compare sulla copertina del libro o del manoscritto) e del nome del narratore: il personaggio principale. Un postulato che non va al di là della forma e che del resto non intende farlo. Il patto autobiografico si opporrebbe dunque a quello della finzione dove il romanziere chiede soltanto che il lettore faccia finta di credere a quel che si racconta: una astrazione che qualifica una forma ma che non entra nel cuore dell’argomento. Il romanzo autobiografico può infatti toccare la verità (e non la certezza) pur con dati empirici del vissuto sia reale sia di invenzione . Potrebbe essere il caso del David Copperfield di Charles Dickens, dove il punto di vista in terza persona (il personaggio come alter ego dell’autore) e l’intreccio del romanzo ottocentesco entrano in stretto contatto con la vita dell’autore e, in particolare, con una ennesima conversione: quella con cui Dickens riconosce la sua identità di scrittore.
Ma la sequenza di casi analoghi, soprattutto nel Novecento, finisce per coinvolgere un eterogeneo mosaico di nomi. Dal Breton di Nadja (un frammento di vita amorosa) alla storia, certo viva di affabulazione, di Henry Miller in Tropico del cancro, o a Età d’uomo di Michel Leiris. Leiris dirà nel suo testo intriso di nevrosi, sogni, inquietudini: «Allineo frasi, accumulo parole e figure del linguaggio ma, in ognuna di queste pagine, ciò che si coglie, è sempre l’ombra, non la preda». Per questo Duccio Demetrio dedica una parte del suo libro a quelle che definisce «parole opache», «essere viventi – scrive- che hanno una loro storia»
Il desiderio di verità
Il desiderio di verità può essere semplice da assecondare finché si riferiscono fatti e contesti, ma diventa problematico quando sono le emozioni, le motivazioni, le relazioni a dover essere riferite. Oliver Sacks precisa: «Ognuno ha un racconto interiore…Ognuno costruisce e vive un racconto modellato inconsciamente in noi attraverso percezioni, sentimenti, pensieri». Ed Emanuele Severino, nella citazione del saggio di Demetrio fornisce subito un tramite di confronto: «Un pomeriggio alla luce grigio-pervinca che precede il temporale e un bambino sui quattro anni seduto per terra sotto il grande tavolo della cucina: (…) Fuori ha cominciato a piovere(…) Questo è il ricordo più lontano che ho di me stesso e del mondo». E poco dopo scrive: «Non avrei dovuto dire !Questo è il ricordo più lontano che ho di me stesso, ma ‘Credo che lo sia’. Non solo. Va detto anche: ‘Credo di essere stato bambino’. Che lo sia stato non è una verità indiscutibile: è una fede (…) Ma come suonano falsi e distratti tutti questi ricordi. Non nel senso che io stia scrivendo cose nella cui esistenza non credo, ma nel senso che, proprio perché credo nella loro esistenza, sono false, distratte. False perché ricordare è errare, sognare.»
Demetrio commenta che sarebbe quindi fuorviante pensare che l’autobiografia possa fornire risposte definitive sul nostro conto: «Il suo scopo è accendere domande interminabili.»

Lo specchio
Forse proprio all’immagine dello specchio tocca dire di più, e perentoriamente, nel merito dell’interiorità autobiografica. Duccio Demetrio dice a proposito di questo emblema: «Ogni foglio scritto da noi è lo specchio opaco che muto ci guarda. Il riflesso inattendibile di un’immagine che non riusciremo mai, del tutto, a mettere a fuoco.» La scrittura che accompagna l’esistenza è insomma un tentativo di avvicinamento all’esistenza stessa, un movimento trascinato la cui natura non è da rintracciarsi solo nel futuro, ma nel passato, «se siamo disponibili a guardarlo in faccia». Si delinea in questo contesto un punto di contatto con il tema della conversione, una sorta di metamorfosi, che informa molte autobiografie e altrettante narrazioni autobiografiche.
Memoria e frammento

Il valore della memoria, unico possibile termine di dialettica con l’umanità fuori dalle conflittualità e dalle contingenze, incrocia il destino delle autobiografie. Per questo Demetrio ne parla alla voce “Cura” del suo lessico. La scrittura non è solo consolazione personale ma opposizione attraverso il valore della memoria «nei confronti di tutti coloro, individui o folle, che preferirebbero dimenticare». E’ quello che l’autore del saggio definisce il «tempo della letteratura», capace di gettarci oltre l’attimo. A questo riguardo cade a proposito il riferimento a Roland Barthes, quando scrive che sussiste una vasta letteratura dell’io e del noi che, persino nelle sue più elementari manifestazioni lascia tracce capaci di risvegliare l’attenzione di chi è venuto dopo, di chi non potrebbe sapere.
Proprio Barthes, abbandonati i panni di semiologo e critico, ha scritto del resto alcune delle pagine autobiografiche più felici dell’ultimo scorcio del Novecento. Roland Barthes di Roland Barthes (1975), mostra un uso inedito della scrittura di sé come testimonianza e al tempo stesso come metafora. Barthes scrive la sua storia assemblando frammenti senza continuità narrativa, con diverse immagini fotografiche. La voce narrativa parla in principio in prima persona, poi utilizza la terza persona: quasi una confessione dello specchio, un riscontro formale per quelle parole opache che non possono non accompagnare ogni autobiografia. L’epigrafe che accompagna il libro è eloquente: «Tutto questo deve essere considerato come detto dal personaggio di un romanzo».
Marco Conti
