Tra storia e trascendenza, entrambe investite dalla luce amara dell’ironia, si svolge l’ultimo capitolo della poesia di Eliza Macadan, In ginocchio fino all’arcobaleno.
Il verso breve scandito con energia è quello che ha caratterizzato la scrittura dell’autrice romena fin dai testi di Paradiso riassunto, ma ora il tempo della contingenza interpella l’essere al mondo e quanto pertiene ai brandelli del mito e della tradizione religiosa. Nella prefazione a Paradiso riassunto, nel 2012, scrivevo: «Quotidianità e storia, paesaggio e coscienza, sono testimoni di un disorientamento che diventa la sola risorsa di senso, l’alveo da cui scorre e si riconduce ogni consapevolezza». Anche oggi l’accento cade su un disorientamento che intanto si è fatto estraneità al proprio tempo, tanto da accostare le parole di un medium sapienziale come l’Ecclesiaste per citare il mondo come teatro della fine.
Con l’ossimoro “Tristezza felice” e l’apposizione ironica “Io salmo, tu salmi” , le poesie della terza sezione approcciano un registro che trova continuamente referenti ultramondani:
ora senza guardare in su porgiamo schivi rosari di vite colate da candele affrettate qui quando metti il piede non sai se è per salire o per cedere
La promessa del nulla

Questa ontologia che cita ora i santi, ora divinità negate, teme infatti il nulla come una promessa: «non è una meta il tibet/ è solo un cammino dal nulla al nulla». Non stupisce dunque di trovare nell’ultimo testo, uno dei più belli, un tema sapienziale avvicinato con il linguaggio e il timbro della quotidianità:
un eremita vicino casa mia dice che
la verità è il tempo di un preghiera
vado a pregare che la bocca
non dica più nulla
Il peso del mondo

L’attesa della “parola” si tramuta nel suo contrario, nel desiderio di silenzio che investe il mistico come la voce sconosciuta con cui prende corpo la poesia.
In queste poesie si affaccia quindi non il sacro ma una trascendenza negata, un’aspirazione che costringe ad avvertire “il peso del mondo” in ogni cosa:
tre sta solo per consolazione per non dire che Dio è solo tre c’è nelle fiabe - sono tentativi, fratelli, desideri – trinità sulle tele raffigurazioni leggende per rubarti l’occhio Dunque «facciamocelo bastare qui l’infinito/ e dura un battito di ciglia».
La storia, l’immanenza

Non credo tuttavia che l’ultimo libro di Eliza Macadan sia l’avvio ad una poesia di segno diverso, appesa al sapere filosofico. In ginocchio fino all’arcobaleno enumera un’assenza, riepiloga un desiderio della storia d’Occidente, ma restituisce l’immanenza con il vuoto e la stoltezza della storia. In “svendo tutti i miei gioielli”, il verso pare divagare rendendoci viceversa le suggestioni dell’indifferenza del secolo ora abbordando una lotta politica, ora la sicumera del potere: «nei cuori icone centenarie/ mi guardano consolatorie/ a parigi sparano in fronte/ i protestatari cina russia e stati/ uniti si contengono il polo nord/ sulla calotta aspettano pronti per prendere/ un posto comodo sul letto/ di procuste del mondo/ un posto per guardare come/ si sprofonda insieme nell’odio».
Forme di straniamento

Ciò che rende più forte la voce di questa poesia è la rapidità, un ritmo con cui il verso si definisce intrecciando ambiti semantici differenti e distanti. L’allusione politica o il moto affettivo prendono corpo in un flusso che sembra divagare, straniando il lettore come una galleria di immagini inattese pronunciate con il registro di un parlato medio-basso, un monologo più o meno scandito o al contrario elusivo e fitto di frammenti. La poesia che apre la raccolta appartiene a queste ultime porgendo, mi sembra, la struttura dell’intero libro, la sua vis dolente e ironica:
Una poesia verso per verso
L’architettura del paradiso rimane in progetto quanto ci piacciono le lacrime che escono da occhi chiari scrivo in un prodromo che la primavera esce dritta dalla terra e arriva fino ai bocci le muse ruzzolano incinte di tanto verde rimasto negli zoccoli di cavalli e io non trovo la direzione di marcia tra i ricordi la magia ha uno stelo alto mi preme sugli occhi mi bacia mortalmente
“L’architettura del paradiso”

I primi due versi («l’architettura del paradiso/ rimane in progetto») fanno cozzare due ambiti differenti in sé inconfrontabili con una metafora al genitivo: un disegno strumentale e il mito, la contingenza e l’assoluto inattingibile. Ma subito si innesta il pianto che, per assonanza con la materia spirituale appena nominata prosaicamente «esce» da «occhi chiari», lasciando in sospeso una possibile connessione tra questa immagine e l’asserzione inerente l’incompiuta «architettura del paradiso. Un terzo soggetto è quello sottinteso dal collettivo “noi”, ma al terzo e quarto verso compare l’io autobiografico: «scrivo in un prodromo/ che la primavera esce» (“che” con valore di “quando”) e subito si definisce il tempo ciclico.
“La magia ha uno stelo alto”
In questi 6 versi il soggetto è cambiato tre volte e ora l’immagine senza indugiare si definisce: la primavera sorge «dritta dalla terra/ e arriva fino ai bocci». I versi 7-8 lasciano ancora al lettore un’impressione particolare perché Eliza Macadan fa qui quello che ha fatto Craig Raine in Un marziano manda una cartolina a casa. L’ autore inglese esprimeva in quel libro l’alienazione dal mondo attraverso l’esasperazione del concetto di straniamento di Todorov, simulando cioè con la sua voce lirica che gli oggetti poetici del testo fossero sconosciuti. Nella nostra lirica «(…) la primavera esce/ dritta dalla terra/ e arriva fino ai bocci»: un linguaggio che consegna un’immagine elementare e insolita.
Il ritmo del testo muta poi ancora direzione. L’immagine successiva, «le muse ruzzolano incinte» contiene un’allusione al luogo e al tempo della fertilità con una contaminazione ideale: «di tanto verde rimasto negli zoccoli/ dei cavalli». La nominazione è vertiginosa. Il dodicesimo e il tredicesimo verso riprendono la voce autoriale: «e io non trovo la direzione di marcia/ tra i ricordi». Si stabilisce un parallelo più preciso tra l’energia poetica e il vissuto, mentre le locuzioni di chiusura (vv. 15-17) alludono con un timbro più disteso alla magia della parola, a una veggenza che è anche destino: «la magia ha uno stelo alto/ mi preme sugli occhi/ mi bacia mortalmente». La ripresa del campo semantico relativo al mondo vegetale (lo stelo) offre non più una semplice metafora, ma una allegoria dell’ispirazione, del fare poetici.
Otto anni, dieci titoli
Un passo quello di Eliza Macadan che da Paradiso riassunto a Pioggia lontano, a quest’ultimo libro, ha avuto accezioni diverse ma calate in cadenze sempre alimentate da improvvise veloci folgorazioni dell’immaginario nelle otto raccolte che, nel corso di altrettanti anni, hanno accompagnato la versatilità dell’autrice facendone una voce autonoma perfettamente ritagliata nella letteratura di oggi.
Marco Conti
Nota biobibliografica:
Eliza Macadan è nata in Romania, a Bacau (nella regione moldava) nel 1967.
Bilingue, fin dalla sua prima raccolta Spatiu auster (Edizioni Plumb, Bacau 1994), ha scritto in romeno e in italiano e in ultimo ha pubblicato una silloge poetica in francese. In lingua italiana ha pubblicato nel 2001 Frammenti di spazio austero (Libro italiano, 2001). A questa raccolta hanno fatto seguito In Autoscop (Edizioni Vinea, Bucarest, 2009); La Nord de cuvant , A Nord della parola (Edizioni Tracus Arte, Bucarest 2010) e Transcripturi din constient- Trascrizioni dal cosciente, (Edizioni Eikon, Cluj Napoca 2011). Da allora ha scritto soprattutto (ma non solo) in italiano: Paradiso riassunto, (2012, Ed. Joker), Stagione sospesa ( Ed. Eikon, Cluj Napoca Romania 2012), Il cane borghese ( 2013, La Vita Felice), Tanagre. Domare i ricordi ( 2014, Ed. Eikon, Cluj Napoca, Romania), Anestesia delle nevi (La Vita Felice, 2015), Passi Passati (Joker, 2016), Pioggia Lontano (Archinto, 2017), Zamalek, (Eikon, Romania, 2018) in romeno e in italiano; Pianti piano (Passigli, 2019); In ginocchio fino all’arcobaleno (Passigli, 2020). Vive a Bucarest.
Voce forte, inconfondibile nel panorama della piu’ autentica lirica romena e italiana contemporanea