
Ci sono montagne boscose, frutti, farina di castagno, ci sono le elemosine, la promessa di una vita nuova. Decine di uomini e donne si uniscono al predicatore Dolcino, l’eretico che vorrebbe una società comunitaria e che disprezza la Chiesa. E’ il sogno della vita apostolica teorizzata da Gherardo Sagalelli; è la Comune hippy del medioevo. Ma all’inizio del XIV secolo, quando si sopravvive quotidianamente alla penuria, una scelta come questa decide il proprio destino. Dolcino e la sua compagna Margherita (donna di rango affascinata dalle parole visionarie), cercano un rifugio per il loro mondo tra la Valsesia e il Biellese. Quando nel 1304 Dolcino si stabilisce a Rassa con i suoi seguaci, i nemici sono però legioni: Segalelli è stato arso sul rogo quattro anni prima. E la montagna non lo proteggerà a lungo. I vescovi di Novara e Vercelli decidono di affrontarlo sul campo. Dolcino risale la montagna, arriva al monte Rubello. Così defilato non riesce però a procurarsi i viveri. Nel 1306, allo stremo delle forze, gli Apostolici vengono sterminati. Poi toccherà a Margherita, bruciata a Biella e al luogotenente Longino; Dolcino viene arso a Vercelli dopo essere stato torturato: sanguinante, sarà mostrato su un carro che attraversa «vie, vicoli, piazze», come scrive l’autore di una cronaca, conosciuto come l’Anonimo Sincrono.
Dolcino nell’Inferno di Dante

Dante Alighieri con le parole di Maometto racconta ugualmente la storia conclusiva ma pare non sapere del rogo che mette fine alla vicenda. Maometto invita infatti Dante a portargli il suo messaggio nei versi 55-60 nel canto XXVIII dell’Inferno:
“Or di’ fra Dolcin dunque che s’armi
tu che forse vedrai il sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì da vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria leve”.
In sostanza Dante conosce bene la vicenda del monte Rubello, sa che la maggior parte degli armati contro fra Dolcino (se fu frate non è per nulla attestato) sono novaresi, che le ragioni delle difficoltà sono legate all’approvvigionamento di viveri. Ma non sembra sapere altro.
L’eretico, i socialisti, Dario Fo

Per i socialisti e il movimento operaio Dolcino è un antesignano della rivoluzione. E a maggior ragione nei luoghi dove l’eretico visse l’ultima battaglia. Nel 1877 uno dei primi scioperi dà convegno sul Monte Rubello e sempre sulle pendici di questa montagna nasce (per intesa dei convenuti) il “Il Corriere Biellese”, un periodico socialista che cesserà le pubblicazioni solo negli anni Settanta del ‘900. L’11 agosto 1907 sulla cima del vicino monte Massaro viene eretto un obelisco di pietre dedicato a Fra Dolcino. “A Fra Dolcino rivendicato. Il popolo 1307-1907”: così recitava la lapide poi abbattuta con il monumento dai fascisti nel 1927.
L’esemplarità della figura è ribadita nel 1974 quando socialisti e libertari (tra loro lo studioso Gustavo Buratti) realizzano un più modesto obelisco nello stesso luogo in cui venne distrutto il primo. Tra i presenti lo scrittore Dario Fo che in Mistero Buffo, ricrea la vicenda dell’eretico e del suo processo.

Schwob e i sommersi della storia
Un tale personaggio, ritagliato nell’intuizione e nel tempo storico insieme, ruvido e igneo come la sua morte sul rogo, non può che prendere l’immaginazione e farla volare in alto. Così accade con l’intelligenza solitaria di Marcel Schwob, la cui breve vita (1867-1905) fatta di passioni e letteratura, potrebbe sintetizzarsi con questa citazione: “Sogno spesso di attraversare la Manica a nuoto e di trovare al mio arrivo Jules Verne che mi aspetta a braccia aperte”.
Marcel Schwob, scrive il suo libro più intenso, Vite immaginarie, dedicando un racconto a fra Dolcino, tra quelli di Lucrezio, di Erostrato, di Paolo Uccello e della principessa Pocahontas. Inutile chiedersi cosa abbiano in comune questi nomi. E’ un libro dedicato ai sommersi dalla storia, agli eretici, a coloro che sono stati salvati soltanto dal tempo e dalla letteratura.

Strade diverse e parallele
Dolcino e Schwob: un messianico nato forse sulle montagne della Valsesia e un parigino di origine ebrea, dalla vita breve e intensa, come quelle di Rimbaud e di Leopardi.
L’eretico e il letterato. In comune hanno solo il vizio di immaginare. Dolcino s’immagina di trasmigrare presto nella città felice, nel Paradiso che sta oltre il velo e le servitù della vita, dei Papi, e del bisogno; Schwob in confronto ha i piedi saldi a terra; si limita a farsi catturare da mondi distanti, da queste mozioni quasi oniriche. Ed ecco il suo racconto, un ritratto storicamente non impreciso quanto irreale perché pervaso dall’immaginazione che si può attribuire all’eretico. Si potrebbe dire ciò che lo stesso Schwob disse di Stevenson: “ Si tratta di un realismo perfettamente irreale e perciò onnipotente”.

Vite immaginarie: l’eretico torna in culla
Lo scrittore racconta come si trattasse di una leggenda ciò che altrove è stato narrato con l’ambizione di fare storia ma incappando fatalmente nelle interpretazioni più o meno credibili, in mancanza di certezze documentali.
Ed eccolo, il Dolcino di Schwob, pubblicato nel 1896: è un bambino affascinato dai frati, dai monaci che gli promettono di insegnargli parlare con gli uccelli, dalle visite porta a porta al loro fianco, prima di pendere dalle labbra del predicatore Gherardino Segalelli. A quel punto il futuro combattente già pensa alla rifondazione del mondo cristiano, ma davvero comunitario, collettivista. Insomma eretico.
“Dolcino – racconta Schwob – proclamò la nuova fede. Diceva che bisognava vestirsi con mantellette di tela bianca come gli apostoli che sono dipinti sul paralume del refettorio dei Frati Minori. Assicurava che non era sufficiente farsi battezzare: ma per tornare interamente all’innocenza dei bambini si fabbricò una culla, si fece legare con le fasce e chiese il seno di una donna”.
Come la Legenda Aurea

Il suo è un mondo di visioni: “Entrarono in un cortile che non conoscevano, e Dolcino gettò un grido di sorpresa mentre posava il suo paniere. Perché quel cortile era tappezzato di folte vigne e tutto pieno di deliziosa e trasparente verzura; leopardi vi balzavano in mezzo a molti animali di oltremare, e si vedevano seduti giovani e giovanette vestiti con stoffe splendenti che suonavano placidamente vielle e cetre”. E’ una anticipazione della rinascita e, al contempo, una memoria del Paradiso perduto con le movenze della Legenda Aurea.

Dolcino e L’uomo Selvaggio

Schwob immagina persino un incontro tra Dolcino e una figura del mito popolare diffusa in varie parti d’Europa: l’Uomo Selvatico. E’ un selvaggio che ha però le fattezze storiche di un monaco simile a Giovanni Battista. “Dolcino credette di vedere San Giovanni Battista. Quell’uomo aveva una barba lunga e nera, era vestito con un sacco e un cilicio scuro, segnato da una larga croce rossa, dal collo sino ai piedi; intorno al suo corpo era attaccata una pelle di bestia (…) La sua parola era aspra come vino di montagna – ma attirò Dolcino”.
E’ un accostamento a cui né la storia ereticale, né la tradizione, avevano pensato. Dolcino è affascinato da Giovanni Battista, cioè da una figura che a sua volta prende in consegna le leggende dell’uomo selvaggio, dei “Salvèi” delle valli biellesi.
“Penitenzagite!”

“Ovunque il monaco dal cilicio suonò la buccina, Dolcino venne ad ammirarlo, desiderando la sua vita. Era un ignorante agitato dalla violenza; non conosceva il latino: per ordinare la penitenza gridava: ‘Penitenzagite!’ Ma egli annunciava sinistramente le predizioni di Merlino e della Sibilla, e dell’abate Gioacchino”.
Si capisce così come nella interpretazione poetica di Schwob, il referto storico risulti ugualmente credibile, se non più credibile di quello che le cronache del tempo hanno consegnato: “Dolcino non stabilì regola né ordine alcuno, sicuro com’era che tale era la dottrina degli apostoli, e che tutto doveva essere nella carità. Chi voleva si nutriva delle bacche degli alberi; altri mendicavano nei villaggi; altri rubavano il bestiame. La vita di Dolcino e di Margherita fu libera sotto il cielo. Ma la gente di Novara non li volle comprendere.”
“Penitenzagite” è un invito che risuona ancora una volta nel romanzo celeberrimo di Umberto Eco Il nome della rosa (5 milioni di copie in 25 lingue) e nel film di Annaud che ne seguì. L’invito è pronunciato da un monaco schivo che, dice la voce narrante, è scappato dopo la disfatta di Dolcino. Ma è rimasto dolciniano nell’anima. E sarà il primo a bruciare.
