«Sono piccola, come lo scricciolo, e miei capelli sono spessi, come l’insetto dei castagni, e i miei occhi sono come lo sherry che gli invitati lasciano nel fondo del bicchiere». Così si definì Emily Dickinson e l’originalità delle similitudini gareggia alla lettura con una certa inquietudine rispetto al mondo evocato. Nata nel 1830 in una famiglia puritana del Massachusetts, aveva cominciato a scrivere a tredici anni. In vita pubblicò solo sette poesie; alla morte nel 1886 ne trovarono oltre 1700 che sono contrassegnate oggi nelle pubblicazioni con un numero progressivo e un anno.
Nella cittadina di Amherst, dove Emily nacque e visse sempre con la sua famiglia di estrazione borghese (con i maschi dediti all’avvocatura), la sua vita ritirata di autoreclusa era già diventata una leggenda ai suoi tempi. Una scrittrice, Mabel Todd, quando si trasferì ad Amherst nel 1881, scrisse di lei in una lettera dicendo: «E’ una signora che la gente chiama il Mito. Non esce dalla sua casa da quindici anni, eccetto una volta per andare in una chiesa appena edificata. Dicono che in quell’occasione sia uscita di casa la sera e che tutto sia accaduto al chiarore della luna».

Reclusione e metafisica
Quando Mabel Todd scrive, Emily ha 51 anni ed è precisamente dal momento in cui ha compiuto il trentaduesimo compleanno che vive nella sua cameretta mostrandosi solo ai suoi familiari, pressoché mai ai visitatori. Si dice che da allora vestisse solo abiti bianchi (anche se nelle foto giovanili è perennemente vestita di nero) e che spesso comunicasse con i familiari tramite bigliettini. La sua camera si trovava al secondo piano, piccola e luminosa: un letto, un tavolino per scrivania, un cassettone per archivio. Quando morì fu la sorella ad aprirlo e a prendere in consegna i manoscritti per darli a Mabel Loomis Todd che lavorava per una casa editrice. La leggenda – a cui però per una volta crediamo – dice inoltre che fu ancora la sorella a escludere alcuni fogli che creavano qualche imbarazzo alla famiglia.
Osservando dalla finestra

Emily osserva il mondo dalla sua cameretta: gli occhi lucidi, che lei paragona allo sherry sul fondo del bicchiere, prendono in prestito una quantità di cose, di trasformazioni, di attributi, che diventano oggetti metafisici. Ma a dispetto dei temi, della sua appartenenza (epocale) alla letteratura trascendentalista, la sensibilità lirica di Emily Dickinson si esprime sovente con una acuminata visualità e ancora più spesso attraverso oggetti e metonimie, scene e traslati, che risultano nel verso tolti dalla contemplazione e rivolti al pensiero. Così se la Dickinson scrive:
C’è una luce obliqua,
i pomeriggi d’inverno –
che opprime come il peso
di greve melodie di cattedrali.
la quartina successiva regge un’intimità riflessiva:
Ferita celeste procura –
e sfregio non lascia
se non lo scarto interiore
dove i significati sono (…)
(258- 1861)
La sentenza non le è estranea, sia pure con la vivacità dell’immagine:
Che l’amore è tutto ciò che c’è,
è tutto quello che sappiamo dell’amore;
è abbastanza, il carico in teoria
proporzionale al solco. (1765, non datata. Traduzione di Barbara Lanati)
Il silenzio di Main Street

La trascrizione delle poesie per la stampa ha creato numerosi problemi di interpretazione, sia per le parole che qui e là risultavano barrate e che potevano essere lette come una alternativa, sia per i segni di interpunzione, in particolare i trattini che a metà, all’inizio e a fine verso risultano modi del tutto personali dell’autrice. L’edizione a cui oggi si fa riferimento è quella critica di Johnson (Boston, 1960) che include 1775 poesie datate.
Il segno distintivo di questa lirica, la contrapposizione di sensualità e metafisica, è naturalmente anche un tratto romantico. Le brughiere delle sorelle Brontë, i boschi solitari di Alphonse De Lamartine, non sono distanti dal paesaggio traguardato dalla finestra della Main Street di Amherst, così come non lo è il tema per eccellenza di Emily Dickinson, questo continuo ossessivo racconto dell’assoluto dietro le apparenze, il velo di Maja, la falsità della morte: «E’ l’immortalità forse un veleno,/ che gli uomini ne sono tanto oppressi?» chiede nell’ironica poesia di “L’immortalità è una rovina”. Ma sicuramente il clima emotivo più proprio della sua poesia, e forse quello che ne ha fatto un’icona del Novecento, scaturisce dal fascino del non detto.
La scrittrice Siri Hustvedt disse in una intervista che, nell’ipotetica isola deserta in cui dovesse finire, qualora dovesse portare con sé solo tre libri, sceglierebbe la Bibbia di Re Giacomo, Il Kierkegaard di Aut-Aut e le poesie della Dickinson. «Per me custodiscono sempre il loro mistero» ha spiegato. Un mistero forse legato, come in Rimbaud, a un dettato che somiglia alle rispettive vite, fatte di scelte estreme e di lirica altrettanto radicale.
Due poesie
Sempre per ogni pensiero le parole
ho trovato – tranne per uno –
E’ questo preciso – mi sfida –
come una mano che cerchi di disegnare il sole
col gesso per razze -nutrito di tenebre –
Tu, come lo cominceresti – il tuo? –
Potrai rendere il rosso rovente con il carminio –
o il mezzogiorno – con l’indaco?
(581 ) Traduzione di Barbara Lanati
***
Suppongo verrà il tempo –
aiutalo a venire –
quando gli uccelli affolleranno l’albero
e l’ape andrà ronzando.
Penso che verrà il tempo –
ma rallentalo un poco –
quando il grano si vestirà di seta
e la mela di chintz.
Credo che verrà il giorno
che la ghiandaia sciocca andrà stridendo
al nuovo bianco manto della terra –
ed anche questo, ritardalo un poco.
(1381) Traduzione di Silvio Raffo
Marco Conti
Riferimenti bibliografici: Emily Dickinson, Poesie, versione e introduzione di Silvio Raffo, Fogola Editore, 1986; Emily Dickinson, Silenzi, a cura di Barbara Lanati, Feltrinelli, 1986; Nadia Fusini, Nomi, Feltrinelli, 1986; The letters, a cura di T.H. Johnson e T. Ward, Harward University Press, the Belknap Press, Cambridge, 1958; Sur l’île déserte de Siri Hustvedt in K. Daoud-R.Jerusalmy, Biblio Odissées, Imprimerie Nationale Editions, 2019
