Claustrofonia, autoironia della bellezza

Paul Klee, 1935

«Mi decido per un foglio bianco/colore non a me predestinato» ; «Disegnava gestalt/ fiori come zanzare incapaci di volo »; «non si ha più sonno quando si teme d’invecchiare/le mani si fanno lunghe quanto rovi senza more»: cito otto versi di tre poesie differenti contenuti in una sorprendente raccolta di Doris Emilia Bragagnini.
In questi pochi frammenti già compaiono i segni indispensabili, le tracce luccicanti sul sentiero per  la lettura di Claustrofonia– Sfarfallii – armati – sottoluce.  Seconda raccolta dell’autrice, la si può interamente leggere nello scarto tra lingua e opera, tra lo strumento della nominazione e la sua estetica.
Doris Bragagnini prende in consegna il discorso lirico novecentesco e ne fa il suo oggetto, poesia sopra la poesia, invenzione su un codice, su una storia linguistica che all’autrice appare stinta e paurosa come la luna per Marinetti. Ecco allora il disegno, lo sfarfallio della Gestalt: la percezione di una forma che si annuncia e non si definisce, un’ombra che si carica di energia e resta sospesa, un linguaggio che non accetta progettualità ma si stabilisce più sinceramente nel tempo incerto  dell’indizio, della traccia. Il contraltare sarebbero le mani vecchie della storia lirica, spinose e senza frutti.

Semantica e ironia

Paul Klee

Questa scrittura vive insomma con un doppio distacco: il primo dovuto allo spostamento dei campi semantici, il secondo provocato dall’ironia. Entrambi separano dal registro lirico così come dal referente.  E dell’ironia parla del resto con dovizia Plinio Perilli nella prefazione. Ecco due esempi sia del mutamento di significato, sia dell’ironia:
 
semplifico ammutinando nel pensiero
ogni parola che si getti a tuffo
in conclamati deserti descrittivi
l’intraprendenza all’artificio
– gli stivali dalle sette leghe –
(da Mappa Valentino)
 
 ***
è una separazione secondaria quella tra te e me
il solito coniglio dal cilindro
procede per scomparse e apparizioni
si disarma alla carota del futuro. poi
indossavo tacchi alti e un cappotto troppo leggero
per dirti – sono io – quella qui dentro
(Gare de Lyon)

Un coniglio dal cilindro

Paul Klee

Il timbro sarebbe in potenza quello della prosa non fosse rimesso in gioco dalle immagini, dalle metafore stranianti delle locuzioni. Ma anche la figura usuale (il coniglio nel cilindro) si disfa e diventa un coniglio dal cilindro. Analogo è il procedimento con “Mappa Valentino” dove si evitano i «deserti descrittivi» separando gli stivali dalle sette leghe. E’ chiaro che in entrambe le citazioni lo slittamento semantico si innesta sullo slancio del distacco ironico.
In Fronte postazione  è invece un’intera topografia ad essere allusiva di questa attitudine proprio nel momento in cui il testo richiama un tema forte, ontologico, che assume il nastro avvoltolato dei ricordi:

ci sono avamposti sotto tegole dei tetti
con nascoste storie cifrate
del supporto da seccare è l’antro a togliere respiro
la ruvida coccia che tiene il dettaglio o l’ingombro che cade

nasce copiosa la voragine versata sul risarcimento danno
un rullo inceppato borderline
nell’ecatombe dei ricordi passati in prescrizione
le lacrime rimandate trattenute – causa buco grondaia.

Sotto il tetto

Paul Klee

La “postazione”, lo stare sotto il tetto, è un correlativo oggettivo dove le storie nascoste tolgono il respiro. Ma se qui l’altrove è un luogo che si incarica di assumere il passato e appare appena un poco più tradizionale, ecco in chiusura un cambiamento di registro e la strada dell’ironia come la lingua bassa di un cartello sul muro: «causa buco grondaia».  Alla stessa stregua di quei «centrini trapanati» dove è evidente lo humor concretizzato dal campo semantico della grossolanità verso il topos dell’ornamento, del ricamo diligente e femminile.

Paul Klee

L’amaca fenice

Doris Emilia Bragagnini porta altrove il suo referente e lo esplicita in Sol_a Gratia: « cerco la nota distorsiva – quella – capace di cancellare il nesso/l’ordine cruento mille volte verticale rinnegato con lo sguardo[non spero]» . In L’amaca fenice, il verso tendente al prosastico esplicita: «c’è un posto che non so quando dovrei dire quello che c’è/ ma che non trovo – lo faccio scomparire». Anche perché  «la sostanza congetturale stringe sugli arti come carta moschicida/ ti dondola sul nulla il palinsesto della vita, a favore di vento// il gancio – sospeso – al diritto d’uscita». Il colloquio con la propria «voce» è citato o alluso in varie parti del libro; il tema di una pronuncia che diviene forma e vive, come ogni autentico soprassalto di poesia, in un equilibrio precario, quasi in una specie di caviardage. Qui la parola può essere stillicidio e più frequentemente un asintoto, la linea curva che si approssima al nostro desiderio senza mai congiungersi. Allora  giunge lo scarto dell’invenzione, il battere e il levare dell’immaginario: la lirica volta le spalle al desiderio e si compie con pienezza:

Nido

Curo i miei fogli come in una culla, li accudisco
ci giro intorno se li lascio so sempre dove sono e ci ritorno
li riassesto li dispongo li sposto gli rimbocco le parole
accarezzandoli con gli occhi a volte li detesto
sempre con quella bocca aperta come passeri neonati
cip cip cip a chiedermi del cibo che ho nascosto o non ricordo
Evito i beccucci non li guardo, allungo tapparelle faccio ombra
forse si addormentano
(Nido)

Marco Conti
Doris Emilia Bragagnini, CLAUSTROFONIA, Sfarfallii – armati – sottoluce, Giuliano Ladolfi Editore, 2018

Introdotta da Plinio Perilli, la raccolta ha una postfazione di Laura Caccia



 


 


 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to Top
error: Content is protected !!