In marcia con la poesia di Augusto Blotto

Augusto Blotto,  forse il poeta più originale  tra quelli conosciuti e sconosciuti alle antologie del secondo Novecento, è un grande camminatore. Della tempra dei Rimbaud e dei Walser. Da Torino, dove è nato nel 1933 e  dove abita, le direttrici dei suoi vagabondaggi  toccano la Liguria, la Lombardia, salgono fino al Biellese e alla Valsesia e più frequentemente si inoltrano al di là del confine francese, percorrono tutta la Provenza, la Linguadoca, accostano Manosque, l’eremo di  uno dei suoi scrittori preferiti, Jean Giono, ridiscendono o puntano più a nord. Ed ogni passeggiata, per quanto modesta, diventa un viaggio, spesso un testo poetico.

«Camminare – dice Augusto Blotto  – permette di estraniarsi, perché cammino prendendo energia,  prendendo vitalità dall’esterno, ma in modo indistinto, come un verme. Poi i versi vengono fuori in modo imperativo».  Comunque sia, attraverso il viaggio o senza di esso, l’opera letteraria di Blotto è un prodigio senza paragoni: cinquantasette volumi corposi, molti dei quali ancora inediti, altri stampati a sue spese da Rebellato e in ultimo,  da Manni e Anterem. In realtà, l’ultima pubblicazione, e certo la più prestigiosa, è avvenuta in Francia, quasi per un contrappasso di fronte alle disattenzioni delle patrie lettere per quest’opera in cui il linguaggio è  una continua invenzione. Nell’ottobre del 2007, una scelta delle poesie di Blotto è comparsa, tradotta da Philippe Di Meo, sulla  storica Nouvelle Revue Française,  insieme a testi di Giorgio Caproni,  Ernesto Calzavara, Toti Scialoja, Emilio Villa, Bartolo Cattafi, Amelia Rosselli, Edoardo Sanguineti, Giuseppe Bonaviri, Vivian Lamarque.

Augusto Blotto, per il vero, pur non essendo stato “storicizzato”, né pubblicato nelle maggiori collane editoriali italiane, aveva avuto lettori importanti: Sergio Solmi in un saggio apparso su “Paragone” negli anni Settanta e poi addirittura Umberto Eco. Solmi coglieva un aspetto cruciale della lingua di Blotto parlando di «scrittura divergente», Eco  in uno scritto riapparso nel 2006 (“La memoria vegetale” Edizioni Il Rovello), ha commentato  e preteso l’assoluta incomprensibilità di questa poesia, rilevando però che l’operazione fatta è tale da poter riservare delle sorprese. Infine, Stefano Agosti, critico letterario acuminatissimo nell’analisi del linguaggio poetico, nella prefazione a “La vivente uniformità dell’animale” (Manni, 2003) ha messo in chiaro alcuni aspetti strutturali e innovativi di una poesia apparsa magnificamente e sontuosamente oscura. Così oscura che si potrebbe aggiungere e  ripetere per Blotto l’adagio e l’elogio di Paul Valery: «Il vantaggio della poesia incomprensibile è che non perde mai la sua freschezza».

Incontro Augusto Blotto a Biella, insieme al critico Sandro Montalto,  in un ristorante davanti alla stazione essendo egli arrivato – almeno per questa volta – in treno anziché a piedi. Il peso dei libri che lo accompagnano  avrebbe del resto scoraggiato persino lui che, calcolando con me la media dei suoi viaggi podistici, arriva a contare circa quattromila luoghi visitati.

Ogni poeta, ogni opera letteraria, ha un’infanzia fatta di passioni e di eroi. Quali sono stati i suoi?

«I miei interessi di adolescente sono stati assolutamente lontani dalla poesia. Diciamo fino ai 15 anni, la mia grande passione fu il pratico operare, la storia. Godendo di una memoria notevole mi immergevo tra storie di guerre e battaglie. Credo di aver immagazzinato una quantità di dati mostruosa. Leggevo Giulio Cesare, Castruccio Castracane,  Pausania.  Se la domanda voleva sapere quale è stata la mia formazione dal punto di vista letterario, direi che non c’è stata assolutamente. La scoperta della poesia è stata una cosa rapida, fulminea, dopo il quindicesimo anno di età e si è tradotta subito in un fare. C’è stato un coup de foudre per i grandi poeti, dopo di che ho cominciato a scrivere.  

Quali poeti  ha amato?

Montale è stato importante e lo è stata la letteratura francese frequentata poi assiduamente. Stranamente mi piaceva Eluard. Ma mi riesce difficile rispondere  perché ho cominciato con lo scrivere romanzi che, del resto, erano solo effusività in veste di prosa. Se poi ho abbandonato la prosa è perché nelle grandi opere narrative ho trovato tutto quello che mi serviva, senza aver voglia di aggiungere niente, mentre spesso nella poesia in versi ho avuto l’imbarazzo di non trovare delle cose che pensavo ci fossero. Nella narrativa non ho quindi  avuto modo di inserirmi mentre nella poesia in versi ho visto immensi spazi vuoti in cui cercare di dire quello che non è mai stato detto e  quello che non si pensa neppure possa essere detto. Ma lei mi chiedeva anche quali fossero gli autori amati…. Per la narrativa la lista è vastissima. Direi Proust, ma anche Conrad, Céline, Giono, la stella luminosa e grandissima di Simenon. Poi ci sono cose ovvie, la grandezza incontestabile, écrasant direi, di  Kafka e Nabokov. Le letture però ci accompagnano per tutta la vita. Dicevamo che da giovani  se ne fanno di determinanti, ma questo vale fino ad un certo punto, perché successivamente si riprendono e il Proust letto a 17 anni è sicuramente diverso da quello letto a 40 e a 70».

 Quando ha cominciato a scrivere quello che poi sarebbe diventato l’inizio o il preludio della sua opera in versi? Il primo libro a quando risale?

«C’è una data precisa  in cui sono nato come scrittore ed è il 23 novembre 1949, quando ho avuto la percezione…Mi sono detto: “sono scrittore anch’io”. Ho cominciato a scrivere un romanzo, chiamiamolo così, ma come ho accennato si trattava di effusioni liriche ritmate, un lavoro poi disconosciuto che ha avuto il titolo di “Un posticino immorale”…titolo regalato successivamente ad Emilio Jona (Emilio Jona , Un posticino morale, Scheiwiller, Milano, 1984. Ndr) . Da quella data alla prima metà del 1950 sono stati scritti altri cinque libri di quel tipo mentre, molto lentamente, cominciava anche l’opera poetica in versi con volumi che ormai non fanno più parte del corpus.

C’è da dire questo: che uno dei motivi della storia della mia vita e della difficoltà della diffusione della mia opera sta in un vulnus iniziale. E’ una specie di orrida fiaba che ho raccontato un po’ a tutti e che tutti si dimenticano perché è una cosa quasi incredibile…Allora, diciamo, dall’estate 1950 all’estate del 1953, dai 17 ai 23 anni, ci sono strati tre anni che hanno modificato la mia vita. Tre anni di frenesia creativa che non ha eguali…Nel senso che sono state scritte ottomila pagine di poesia. Di queste ottomila pagine ci sono 18 volumi di cui una buona parte, dieci volumi, ahimè (dico ahimè perché sono testi che non rinnego ma di cui vedo i limiti) sono stati pubblicati a partire dal ’58-’59 con delle aggiunte, delle riscritture, delle omissioni. Ma se vogliamo tornare a quanto dicevo, cioè all’ambizione di scrivere come mai era stato scritto, questo primo periodo non c’entra poiché ero abbastanza in linea con quello che si poteva scrivere allora e anche oggi. Diciamo che l’inconfondibilità della mia opera, la griffe, si può ascrivere alla fine del 1952 circa e che questa seconda fase, rispetto alla prima, comprende degli enormi volumi che non sono pubblicati  e non sono pubblicabili se non post-mortem e con l’ausilio di una fondazione: sono tre grossi volumi intitolati “Nell’Insieme, nel pacco d’aria”, altre quattromila pagine».

Il suo primo libro pubblicato aveva però alle spalle un’esperienza particolare…

«Ragazzo nel clima della ricostruzione, poiché parliamo della fine degli anni Quaranta, ho avuto una  notevole passione politica, tant’è vero che il primo libro pubblicato (Il 1950, Civile – (la stanchezza iniziale – I)  Rebellato, Padova, 1959; a questo seguì Dolcezza, bonomia – (la stanchezza iniziale II) Rebellato, Padova 1959. Ndr) risale all’estate 1950 ed è per così dire un libro jugoslavo…Ero andato con una delegazione italiana in Jugoslavia…Ero un trotzkista, un “titoista” in un’epoca in cui la cultura italiana di sinistra era zdanoviana. Avvertivo questo desiderio di ribellione, questo cercare di essere altrove, anche a costo di sfiorare degli ambienti criminali o quasi…E’ strano che mi sia tirato fuori da questo periodo con una salute mentale abbastanza normale. Certamente un effetto di questo mostruoso vulnus è quello di non avere mai neppure lontanamente preso in considerazione qualsiasi competizione, qualsiasi paragone con la società letteraria italiana e neanche pensai di poter comunicare. Ritenevo in parte giustamente, in parte forse no, che fossimo su pianeti differenti. In questo, beninteso, non c’era nessuna vanagloria».

Come nasce la sua poesia? Per lei è stato importante il mondo dei surrealisti (e non mi riferisco necessariamente alla scrittura automatica)?

«C’è stato un momento in cui i surrealisti mi hanno interessato, non dico influenzato o ispirato. Più che i surrealisti un autore che certamente ha influito su di me è  Henri Michaux, almeno per un certo periodo della mia composizione, cioè nel 1953».

Come nasce in lei lo scatto, l’accensione lirica o, se preferisce, quello che si chiama ispirazione?

«Nasce dalla necessità assoluta, dall’impossibilità di pensare a qualsiasi altra cosa».

Ma un testo di migliaia di versi si può dire sempre sostenuto dall’ispirazione o da una  tensione emotiva?

«Quei tre anni di cui ho parlato sono stati tre anni di frenesia, di  dérèglement anche se non ho mai usato droghe, diversamente da Michaux, al massimo qualche bicchiere in più. In quel periodo ho abbandonato gli studi universitari dove ero un allievo di Luigi Foscolo Benedetto, non di Terracini come disse Solmi nel suo saggio, peraltro scritto senza conoscermi e dove ebbe quell’intuizione della “scrittura divergente”… Ma parlò poi anche di propensione zen riferendosi alla fenomenologia del vuoto, il che non è».

Cosa vuol dire scrittura divergente?    

« Il saggio di Solmi e in parte di Stefano Agosti sono basati su questo concetto. Se per scrittura divergente si intende il regno della assoluta diversificazione, il continuo depistare il lettore non per il proprio piacere ma per necessità intrinseca, allora lo capisco. Nel corpo di ogni mio verso credo che ci sia qualcosa che ti prende per la pelle e ti capovolge. Se cioè  leggessimo un verso di Dante fermandoci a metà, “Nel mezzo del cammin…” è possibile che qualcuno aggiunga il seguito. Nel mio caso, viceversa, è impossibile, perché prendo un’altra strada. Ma logica e sintassi ci sono; l’aspirazione epistemologica (poi altri diranno se è così davvero) è quella di avvicinare il reale, anziché la realtà…Un avvicinamento nato con Rimbaud. Agosti nel suo saggio dice che sono radicalmente antipetrarchista, nel senso che la poesia di Petrarca nasce dall’assenza, parla di quello che non c’è. In ciò che scrivo io, invece, c’è l’assoluta religione di quello che c’è. Il 95 per cento delle cose che vivono con noi non viene detto, non viene tradotto, non viene ricreato».

Questo mi fa venire in mente ciò che disse Beckett a proposito della sua opera più matura, ovvero di aver dato voce al balbettio della coscienza. Lei a cosa ha dato voce?

«Toccherà ad altri dirlo, ma certamente si potrebbe ripetere quello che ha  detto Beckett. Piuttosto che al balbettio della coscienza, nel mio caso direi di aver dato voce alla contemporaneità degli eventi».

I suoi viaggi, i luoghi visitati, sono parte integrante del suo mondo poetico?

«I luoghi fanno parte di un universo parallelo che viene creato a fianco di un universo reale. Parlando di ciò che avrei voluto fare (se poi l’ho fatto è questione diversa),  auspicherei che leggendo miei testi il lettore trovasse una visione del reale e anche del “retro”, per così dire, del reale. Non mi piacerebbe invece che si usasse l’espressione  “un non luogo”, “un luogo inesistente”. Posto che si crei un mondo parallelo, vorrei che questo avesse una contropartita nel mondo apparente: precisa, icastica. Dei quattro o cinque mila posti che ho percorso e di cui in qualche modo ho scritto, mi piacerebbe che ci fosse non solo la visione ma che il verso fosse una sorta di guida. Per esempio che, scendendo dal treno in una determinata località,  il lettore potesse riconoscerla…Naturalmente è solo un’ambizione. Ciò che detesto e cerco di evitare è lo sfumato, l’evanescente».

Ci sono altri temi costanti nei suoi libri? E nel suo periodo aureo, quei dieci anni che vanno dal 1957 al 1967?

«All’inizio come ho detto c’è stata la poesia politica. Una passione costantemente a doppia faccia: la consapevolezza  della virulenza dell’insurrezionalità e, d’altro canto, la bassezza o il ridicolo della politica. Ma è un motivo minore. Quelli maggiori convergono verso la devozione all’indicibilità che coincide col reale, col ritmo del respiro che ci perseguita ventiquattro ore su ventiquattro. Più che di temi possiamo parlare della lingua, ovvero (come mi è riconosciuto),  della continua invenzione linguistica, cioè il capovolgere, nel verso, le aspettative del lettore con continui corto circuiti. C’è un mio libro degli anni Sessanta, “La Popolazione”, che rappresenta meglio questo aspetto, i limiti della comprensibilità. E’una fornace dal calore insostenibile».

Umberto Eco, lo ha ricordato lei stesso, parla di testi incomprensibili.

«Le intenzioni del poeta certo non sono importanti…Ma le mie poesie non sono incomprensibili. Il poeta può aver avuto l’intenzione di dire una certa cosa e tuttavia l’idea che ha avuto è valida nel momento in cui ne genera delle altre, innesca un discorso polisemico.  Mi si dice anche che uso dei neologismi ma non è così. Le parole che adopero si trovano  tutte sul vocabolario».

La sua opera è stata a lungo ignorata; come viveva questa disattenzione?

«Ero stupefatto che accadesse così poco. Inviavo i libri, li mandavo che so… a duecento critici pensando che certamente qualcosa sarebbe accaduto. Ho trascorso  12 anni di automecenatismo, pagandomi le pubblicazioni. Ma nel ‘50-’53 scrivevo e non pensavo agli editori. E credo sia stato un bene.. Nel senso che ho vissuto senza frequentare animali velenosi».

Il piacere della solitudine l’ha sempre avuto?

«Mah… non direi neanche piacere…E’ come respirare».

Mi racconti una sua giornata abituale.

«Le mie giornate…Al mattino mi alzo, sello il mio cavallo e decido di andare in questa o quella plaga del mio impero a vedere se i mandarini hanno amministrato bene le mie sostanze. Nel  1956, mi dico, per esempio,  ero al tal posto sull’altipiano di Asiago e ho scritto quella cosa, ora andiamo a vedere se tiene. E sello il mio cavallo. Ci sono diciottomila pagine e vado a vedere di cosa si tratta. Se trovo qualcosa che non va intervengo o l’annullo, il che avviene raramente, più spesso aggiungo».

E i vagabondaggi veri continuano?

«Sono quasi cinquantancinque anni di viaggi. Dai vent’anni in poi. Mediamente  ho fatto quasi due uscite a settimana…complessivamente il giro dell’Equatore, circa 4000 luoghi visitati. Oggi viaggio ancora a piedi ma con mete meno faticose. Da giovane una volta ho fatto 84 chilometri. Trekking mai».

Sempre da solo?

«No qualche volta mi ha accompagnato mia moglie ma mentre io posso lavorare col cellulare in mezzo a un bosco, mia moglie, che è psicanalista, no».

Le leggo qualche suo verso. Me lo spiega?

«Volentieri».  

Augusto Blotto, chiosa, illustra, ricrea. Il suo verso azzera l’uniformità del significato e si apre a diversi possibili sensi: un’eccedenza su cui il lettore può incantarsi, può sentirsi messo all’angolo e dimenticato o rifrangersi nella vivacità di un’esperienza.

Marco Conti

(L’intervista è apparsa sul semestrale La Clessidra, n. 1, 2009)

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