Cristina Bove, sospesi nel vuoto

Tra i molti appelli della poesia contentemporanea italiana, la lirica di Cristina Bove procede con il passo certo della chiarezza. Non quella aleatoria delle suggestioni “pop”, in lizza ora anche con lo Strega. Ma quelle che, dal canone alla fine del  ‘900, consegnano la letteratura al pubblico dei suoi lettori. Un primo riscontro lo fornisce Anna Maria Curci nella prefazione a La simmetria del vuoto, testo  da cui preleva un concetto che si riverbera, io credo, non solo in quel libro. E’ l’idea di sospensione che la Curci utilizza per definire l’atteggiamento implicito nei versi. Meglio ancora, la prefatrice ricorre al tedesco schweben, dove è presente un più ampio campo semantico. Nel verbo  ricorrono infatti le idee contigue di volo, fluttuazione, oscillazione. Vale la pena di rilevarlo subito per dire che Cristina Bove, anche nel libro successivo, Una donna di marmo nell’aiuola (dove il titolo parrebbe con questa scorta vagamente paradossale), mostra la stessa disposizione.

Il punto è che Cristina Bove in queste due opere, rispettivamente del 2018 e del 2019, l’idea di schweben  si dirama da quella di distacco: non solo  il distacco implicito dell’ironia ma, di pari passo,  quello di una sorta di pathos della lontananza. E’ dalla distanza del tempo che Cristina Bove guarda l’essere al mondo; è dalla distanza dalla mondanità e dal cicaleccio contemporaneo che osserva gli impiastri della storia. La sospensione diviene allora la condizione singolare di una voce che permette di pronunciare: «l’aria che avvolge i corpi/ è il calco d’ogni forma _ una fusione a cielo perso_/ l’antimateria ha il suo marchio di fabbrica// siamo scavati nelle nuvole/ abbiamo l’elemosina del sogno». Una metafora al genitivo che chiosa con eloquenza le forme convocate in “Come conigli tratti dal cappello” nel secondo dei libri qui citati.

Una donna di marmo nell’aiuola

Se l’aria appare l’elemento più proprio delle attitudini citate, va detto che il percorso di Una donna di marmo nell’aiuola è fitto di allegorie racchiuse nel perimetro delle diverse contingenze evocate. La dimora, la casa, diventa così traslato del paesaggio dell’essere: stanze, specchiere, pareti, divani,  soffitti, tappeti, sono le forme incidentali di un viaggio metafisico. Così che in ciò che è contiguo si distingua ogni remoto. Nel testo “Poi la nave bianca”, Cristina Bove scrive:

L’inizio della curva
sul fianco della sala. Viro
rischiosamente all’angolo del vento
piccola tramontana d’apprensione
e di ritorno sul tappeto il mare

è sempre mare quello che calpesto
un mare a cera
un porto di piastrelle _sedie a remi_
il faro d’alabastro appeso al muro

nel doppiare la costa del divano
è li lo scopro
accovacciato dietro la sua fronte
sessanta primavere sulla faccia
_la mappa del suo dire_
e l’improvviso volgermi le spalle

l’isola mia si stende sul balcone
alghe di rose sulla riva intrisa
e nello sciabordio poche parole
scritte di pioggia dall’innaffiatoio
nel terminale inquinamento da
amore impoverito _ e d’altre scorie non
biodegradabili_

Speditamente, con ritmo certo,  la poesia inscrive la tensione verso un altrove non pronunciato  nello spazio opposto del quotidiano; il timbro colloquiale della contiguità si nutre dell’emozione antitetica, vale a dire (ancora) dell’ironia. La sequenza compatta attraverso un paradossale parallelismo il mare e il pavimento, i remi e la comoda seduta del salotto, la pioggia e l’innaffiatoio, in maniera che altrove, con voce diversa e fuori da ogni cornice, possa commentare: «Se solo ricordassimo l’immenso/ quando ci prende e ci asserisce il male!» I due versanti di questa poetica (vicino e remoto) si compenetrano continuamente. Gli ultimi più ellittici versi del percorso procedono allo stesso modo, cioè con la stessa dialettica. Nelle strofe di “L’inizio presuppone l’infinito”, si legge:

perché la fine è un cambio di stagione
ci sono armadi in terra 
e armadi in cielo
al termine dell’aria
_la vita ripiegata in un cassetto_
 

E ti ricordi
quando innanzi tempo
tentarono la fuga
i mille pezzi della donna argento?
 

un grappolo di luna
riluceva di vita in mare aperto:
i figli tutti
scrivevano sull’acqua il proprio nome

E’ in questa voce  «fuori d’ogni maschera», aggiunge Annamaria Ferramosca nella sua prefazione, a rivelarsi radice e seme della ricerca, tra la bellezza del velo di Maja e la sua interrogazione oltre le futilità.

La simmetria del vuoto

Quanto appena detto non esclude affatto la percezione della storia. E Cristina Bove vi si addentra qui e là con un vigore che capita raramente di trovare nella produzione lirica contemporanea per quanto eterogenea. Nel primo libro, La simmetria del vuoto,  questo accento è forse più marcato. Ecco comparire allora la diegesi del potere con i versi limpidissimi di “Ipnagogica”, dove la distanza  è solo quella che si esprime nel percorso tra l’ironia e il sarcasmo:

Il balbuziente dio delle borgate
acclama l’afasia degli istrioni
a un pupazzo e ai suoi accoliti gli onori
al gregge la pastura, ammaestrare
la pecora che basta lavorare
mangiare, defecare, guardare la tivù
versare i contributi e le prebende
schiattare sulla terra col sudore
piegarsi ad ogni altare
ché tanto poi l’accoglierà Gesù
nel paradiso di chi muore qui
per far la vita agiata al suo predone
 

il potere ha lo sporco nelle unghie
_un supermarket delle ambiguità_

E alla strofa di chiusura:

ci vorrebbe una tromba sveglia_ armenti
un terremoto ai timpani
e capiremmo che l’assuefazione
ne uccide più di distruzioni in massa

Non si tratta di un occasionale salto nel caravanserraglio del presente perché nel libro successivo (che abbiamo appena abbandonato), un trittico di Bosch consente all’autrice un timbro ancora più diretto: «si traghettano infamie per campare/ si vengono indulgenze agli assassini/ i pesci muti vengono affettati/ i topi si nascondono nei muri/ e cosa mai ci resta da pensare/ da musicare da comporre in frasi/ possiamo solo mendicare il sogno/ dei folli e dei poeti»  scandisce in “Sull’entropia d’un trittico” per chiosare infine passando dal passato al presente: «Tuttavia se non saremo lesti a decrittare/ non ci sarà per noi madonna in cielo/ o santo che ci possa traghettare.»

Nella poesia di Cristina Bove la soggettività è quasi sempre assorbita dal tema o dalla prima persona plurale con cui l’autore dialoga e riflette.  Tra i testi di  La simmetria del vuoto, lo sporgersi oltre il proprio tempo ha un vasto corollario che condivide  gli incisi meta letterari di “S’imponeva il grigio”, le strofe  dove  prevale una nozione etica e «la terra è un campo coltivato a sassi» (“Malgrado i convenevoli”) e il gioco letterario di paronomasie  e parafrasi che s’innervano fin dai titoli: “Agenzia delle uscite”, “Resa dei vinti”, “Una gita tutta per sé”… Dove i versi oscillano o si librano tra bellezza e humor annunciando una volta di più un’altra ennesima provvisorietà: «Quando si sarà detto/ tanto da non avere più cartucce/ scaduto il regolare porto d’arti/ il rigo assumerà quei segni fitti/ come gli scarabocchi di ricette».

Marco Conti

Cristina Bove, La simmetria del vuoto, pp. 89, Arcipelago Itaca Edizioni, 2018; euro 13, 00.

Cristina Bove, La donna di marmo nell’aiuola, pp. 113, Campanotto Editore,2019; euro 15,00

 

Contemporaneo occidentale, le qualità della letteratura

Un’antologia di racconti e le riflessioni sull’autenticità della letteratura in un tempo dominato dal lettore-consumatore

Mario Lavagetto in Eutanasia della critica svolse nel 2005 un’analisi dell’approccio alla letteratura. Nel suo testo osservò che il referente più ascoltato del XXI secolo non nasceva nell’ambito disciplinare e critico ma dal mercato: il lettore-consumatore destinato a stabilire la gerarchia dei valori. Più dettagliatamente Lavagetto cercava di comprendere la scomparsa della critica letteraria o comunque la sua regressione. Per Lavagetto un’intera, vasta epoca, estesa tra  Ottocento e primo Novecento,  aveva posto al centro della conoscenza letteraria l’autore, al quale era succeduto, un tempo (gli anni ’60 e ’70) in cui l’attenzione era del tutto assorbita dal testo con il tramite strumentale di semiologia e strutturalismo. A poco a poco entrambe le eredità più tradizionali e colte sono state scalzate dal mercato, dalle strategie tese a convalidare la letteratura con il consenso generale. Un esito al quale si potrebbe aggiungere – al di là dell’analisi compiuta da Lavagetto – il discorso sul canone occidentale, divenuto aleatorio in funzione del disinteresse che esprime l’ideologia del mercato, intesa semmai a fingere, ogni giorno, una scoperta, un rinnovamento, persino una rivoluzione (finalizzata alla vetrina, materiale o immateriale che sia).

Andrea Gentile e Karl Ove Knausgard 

Questa riflessione sorge spontanea, come viatico e corollario, leggendo il saggio di Karl Ove Knausgard, Sul valore della letteratura,  incluso in un insolito libro di racconti curato da Andrea Gentile: Contemporaneo occidentale . Nella sezione del libro dedicata al discorso metaletterario, lo scrittore norvegese non parla di ideologia culturale dominante ma perviene ad esiti analoghi  parlando di quanto è sottaciuto: «Leggiamo i libri per divertimento, per staccarci qualche ora dalla realtà, forse imparando soltanto che il desiderio è una pulsione molto forte, capace di creare problemi». Dunque: «Dobbiamo avvertire la gioia, in modo che così compriamo. Dobbiamo percepire l’orgoglio, in modo che così compriamo, Dobbiamo sentire il desiderio, in modo che così compriamo, Dobbiamo avvertire la vergogna, in modo che così compriamo».

Knausgard procede ricordando che «la letteratura investe molti altri campi, il sociale, lo storico, il politico e possiede molte forme di cui la narrazione è forse quella predominante», ma soltanto un elemento  è specifico del discorso letterario: solo la letteratura è in grado di elevare il linguaggio interiore e renderlo visibile. Per l’autore norvegese l’arte e la letteratura sono tra i pochi ambiti in cui «il prevedibile viene cancellato o perlomeno ci si sforza di abrogarlo. Lo spazio dell’arte e della letteratura risiede tra l’idea di realtà e la realtà, spazio che la letteratura cerca di tenere aperto al fine di raggiungere, o addirittura di stabilire, gli attimi in cui l’idea di realtà e la realtà coincidono, sono una cosa sola.» Quando accade ecco comparire una forma…un modo, uno stile. E proprio questo aspetto sembra del tutto condiviso dal curatore dell’antologia che, nella sua introduzione, dopo essersi chiesto cosa sia la letteratura nell’epoca dell’algoritmo (del numero), ed aver chiarito che la risposta rimane aperta, precisa di non aver voluto proporre un canone benché molti autori convocati siano di fama internazionale. E allora?

La metafora del pellegrino

Andrea Gentile cerca di avvicinarsi alla nozione di letteratura che gli è consona con la metafora del viaggio e del pellegrinaggio dove il cammino separa la partenza dall’arrivo. Ma la sorpresa è che «il tragitto è pieno di spazi intermedi: è tutto uno spazio intermedio. Un tempo da dimenticare e uno da percorrere il più velocemente possibile. Il cammino del pellegrino no: il suo non è un percorso bensì una transizione. Nel cammino del pellegrino gli spazi intermedi sono sempre vivi: non sono più intermedi.» Il pellegrino vive insomma ogni istante: «Ogni tempo è reale. Così la letteratura.»

Si comprende meglio allora perché lo scrittore di I vivi e i morti e di Apparizioni, ci porga l’idea che è lo spazio tra i pensieri a far scaturire la letteratura; che il dominio letterario è quello che non evolve da un progetto o da una trama o da uno stile. Gentile sembra insomma circoscrivere il dato della creazione, come elemento discriminante che non si colloca nella gabbia del pensiero strutturato e finalizzato.  I modelli di Andrea Gentile e di Karl Ove Knausgard, procedono dallo stesso alveo: non fronteggiano l’idea di canone, ma certo non la contraddicono. Né potrebbero farlo poiché le velleità di cui ogni tanto qualche autore o accademico si nutre speculativamente vaticinando il futuro delle arti non arrivano mai al giorno successivo, ma verosimilmente si accompagnano al bazar di cui parla Lavagetto, il mercato del lettore.

Olga Tokarczuk e gli altri autori

In sintonia con quanto promesso nell’introduzione, i racconti proposti da Gentile non hanno coesione stilistica. Forse gli unici tratti comuni sono inerenti a percorsi eterogenei ma distanti dalle istanze del realismo più ovvio. Di certo ogni autore spende qui un’idea di letteratura “alta” che del pellegrino on the road assume la precarietà dell’attimo. Così è per il premio Nobel Olga Tokarczuk con La montagna di tutti i santi dove si raffrontano con spericolatezza l’idea della clonazione e della santità; così è per le pagine metaletterarie di Thomas Ligotti di Metaphysica Morum. Nondimeno l’antologia non cerca neppure l’approccio tematico insolito. Ecco comparire Ragnatela di Mariana Enriquez in un Paraguay sottilmente inquietante e kafkiano e il racconto di Lászlό Darvasi, Lama,  dove la storia di un bambino scomparso non si percorre che attraverso una narrazione circolare, fitta di emozione e di campiture espressioniste. Gli altri autori sono Jeff VanderMeer, David Peace, Emma Glass, Geoff Dyer, Mircea Cărtărescu, Ali Smith, William T. Vollman, Mariella Mehr.

Marco Conti

AA.VV. Contemporaneo occidentale (a cura di Andrea Gentile), pp. 323, ilSaggiatore, 2022; euro 22, 00

 

Tasmania, l’umanità in fuga di Paolo Giordano

La storia autobiografica di uno scrittore che avverte il rischio di una frattura imminente della civiltà 

Il presente, le nubi più inquiete e inquietanti e un male che, pur non avendo profilo metafisico, è ubiquo, capace di sbocciare «qui e là nel continente come un fiore marcio». Per questo Paolo Giordano intitola il suo ultimo romanzo Tasmania, vale a dire il paese in cui si potrebbe scappare in caso di apocalisse. «E’ abbastanza a sud per sottrarsi alle temperature eccessive. Ha buone riserve d’acqua dolce, si trova in uno stato democratico e non ospita predatori per l’uomo. Non è troppo piccola ma è comunque un’isola, quindi più facile da difendere.» Lo spiega un climatologo, personaggio cruciale di queste pagine dove il basso continuo di una frattura imminente della civiltà si sposa con la lacerazione privata nella vita del narratore.

Giordano scrive con Tasmania un romanzo autobiografico (o di autofiction, a voler credere che vi sia una differenza e quindi sia autofiction anche la Recherche proustiana) dove un momento di difficoltà personale del protagonista e narratore incontra il disorientamento dell’epoca. La prima pagina traccia i confini di questo disagio con chiarezza: Paolo, nel 2015, si trova alla conferenza sull’emergenza climatica ma chiarisce che «se non ci fosse stata», «è probabile che avrei inventato un’altra scusa per partire».

Autobiografismo e storia

L’autobiografismo di Tasmania è costruito facendo del disorientamento del protagonista il fulcro della storia e consegnando alla prospettiva del suo pensiero i temi che vi si affacciano: non solo il cambiamento climatico, ma l’instabilità politica, la minaccia dell’olocausto nucleare, un certo costante sradicamento nella vita dal mondo di ieri siglato, di sfuggita, dalla lettura del saggio di Jared Diamond, Collasso…Mentre il tempo della storia è quello della pandemia.

Il lavoro di pubblicista porta intanto lo scrittore a diventare una sorta di globe trotters: ora a Parigi per la conferenza sul clima e per aiutare Giulio, un amico impegnato un divorzio problematico, ora di ritorno nel suo paese ma ospite di un albergo, ora in Giappone dove si ricorda la ricorrenza delle bombe su Hiroshima e Nagasaki. Ma a ben guardare il disagio del narratore è analogo a quello dell’amico che, grazie ad un anno sabbatico, si sposta in Sudafrica  e frequenta un corso per diventare ranger di un parco; così come è un disagio, seppure di segno diverso, quello del climatologo Novelli, docente universitario, ospite di successo della televisione francese, e personaggio in dissidio con i diktat del “politicamente corretto” quando si sente rifiutato. Giordano sembra introdurre in questo modo anche l’ennesimo tarlo del XXI secolo, vale a dire un narcisismo feroce che l’Occidente ha spalmato su ogni superficie utile e inutile.

Nessuna catarsi

La catarsi? All’orizzonte non se ne vede traccia. Paolo torna tra le braccia della moglie dopo un distacco mai dichiarato e in realtà circoscritto ai problemi di infertilità, all’assenza di slanci a un partouze imbarazzante. Ma la riconciliazione ha il valore di un inciso nell’economia della narrazione. Ogni percorso prosegue nella prosa distaccata e dolente che stabilisce il registro generale del romanzo e che emblematicamente si chiude sulle riflessioni del “flash” che incenerì due città giapponesi.

Tra le implicazioni formali di Tasmania c’è l’assenza di un ambiente mentre ognuno dei personaggi prende forma unicamente in funzione del narratore. Fa eccezione il climatologo Jacopo Novelli che del proprio tempo ha una nozione più precisa. L’uomo che scruta le nuvole non ha ottimismi e neppure incertezze. Della vita politica dice che non esistono più autentici schieramenti e diversità. Ognuno in sostanza potrebbe tutt’al più schierarsi per la verità o contro la verità. Con queste convinzioni non demorde neppure quando, dopo aver perso il concorso per la sua cattedra, decide di esibire uno studio statistico per dimostrare che le donne scienziate sono favorite, guadagnandosi con ciò la censura del suo ambiente.

E’ Giulio, l’amico impegnato come ranger in Sudafrica, a fornire invece un contraltare, sia ai dubbi del protagonista, sia alla visione e al narcisismo di Novelli: «C’è qualcosa di diverso qui, mi scriveva, come un’appartenenza profonda. Gli animali ti riconoscono e tu riconosci loro. Abbiamo coabitato per millenni, ci siamo mangiati a vicenda. Adesso ci facciamo mangiare solo da avvocati e psicologi.»

Ma il racconto di Giulio (e quello simbolico sugli uccelli che guidano gli uomini al miele) non convince il narratore benché progettare e sognare siano attributi del tutto umani e Giordano sembri spargere, qui e là, come briciole di pollicino, qualche labile segno di riscatto. Come le nuvole che il protagonista osserva con l’esperto: «L’umanità guardava lo stesso cielo da migliaia di anni, eppure nuove configurazioni venivano ancora scoperte e classificate.»

Marco Conti

Paolo Giordano, Tasmania, pp. 258, Einaudi, 2022, euro 19,50

 

 

 

Enard, Il banchetto annuale della confraternita dei becchini

L’ultimo romanzo di Mathias Enard tra i fasti di Rabelais e i verdi canali del Poitevin

«Questo posto, va da sé, ho deciso di chiamarlo Pensiero Selvaggio»: sono le prime parole del  narratore di Il banchetto annuale della confraternita dei becchini. Un omaggio che il giovane etnologo protagonista del romanzo di Mathias Enard rende a Lévy-Strauss se non altro per immergersi mentalmente nel proprio lavoro. Parigino, David Mazon si trova ora nel Marais Poitevin, in una campagna verdissima, luogo di tradizioni agli antipodi della metropoli da cui proviene. Affitta così la stanza di una fattoria, si fa prestare un motorino per raggiungere il paese e svolgere le interviste che dovranno confluire nella sua tesi di dottorato. Nel frattempo redige il suo diario. Il primo tempo del romanzo di Enard coincide dunque con le pagine del diario, gli incontri del protagonista, i dubbi, le inezie quotidiane. La scrittura di Enard, funambolo di registri e modi, resta per il momento sospesa sul piano scorrevole e un po’ sciatto della pagina diaristica d’occasione. Ci si guarda intorno: c’è il Bar-Pesca (sostituto dell’italianissimo Bar Sport) unico luogo di incontro del paese, c’è il sindaco Martial che di professione fa il becchino, Max, un artista che ha scelto di vivere ai margini, una giovane orticoltrice, Lucie, impigliata tra i doveri di soccorso al nonno e al cugino Arnaud detto Nono, detto Babbeo, che recita a richiesta le efemeridi del giorno senza sbagliare una data, un nome, una nascita.

Nel cuore del romanzo

Ma il cuore del romanzo è altrove. Mathias Enard, autore di Zona, di Parlami di battaglie, di re e di elefanti, del premio Goncourt Bussola, non è narratore che si spenda in una semplice trama, pur sorvegliata e incisiva. E’ autore nel senso più pieno del termine e la sua scrittura è stile. In questo libro  Calvino vedrebbe una declinazione del suo concetto di “Molteplicità”. La linea diegetica è infoltita passo a passo di registri inattesi che stratificano le forme del racconto. E nella cornice del Marais-Poitevin, tra i verdissimi canali che attraversano la campagna, lo spazio e il tempo si dilatano. Di ogni personaggio Enard racconta presente e passato. Il banchetto annuale della confraternita dei becchini è infatti uno iato tra due mondi che richiama altre epoche e altri personaggi: «Arnaud leggeva negli altri come in un libro aperto – solo lui sapeva che il nonno era stato, alla rinfusa, mezzadri uomini e donne, sguattere di fattoria, un bracconiere errante, svariati caprioli, un cane, degli storni, o che lui stesso, Arnaud, doveva le proprie conoscenze meccaniche al fatto di essere la reincarnazione di un meccanico di Villiers». L’esergo del romanzo che cita il Budda non è dunque un approccio culturale, ma il pensiero con cui il narratore entra nella stratificazione della storia. I tre giorni di festa e di tregua concessi ogni anno ai becchini diventano quindi uno spazio in cui la Morte resta sospesa e i personaggi passano in rassegna dentro la Ruota del tempo e delle sue metamorfosi.

Rabelais, La molteplicità

Il romanzo non si limita tuttavia ad un itinerario narrativo tra le epoche. Entrando nella galleria dei cicli di vite, morti e rinascite,  la tregua del banchetto annuale dà luogo a una sorta di enciclopedia della tradizione. Cibi, vini, figure dell’immaginario, canzoni, vi vengono richiamate con puntualità: «Il privilegio di scegliere la canzone spettava ogni anno a una delegazione differente – questa volta erano stati designati i becchini occitani; il trou sarebbe stato quindi biterrese, di Béziers, o narbonese, di Narbonne; gli alcolici, dell’Ovest: un liquore di angelica del Marais, verde come una chartreuse, inebriante con una fata nella nebbia, oppure un’acquavite di prugne blu distillata tre volte, certo un po’ aspra, un po’ ruvida, ma con un retrogusto profumato, come i morti che risveglia.» Dal timbro mimetico, a tratti lirico,  Enard passa a quello burlesco, ripete l’elencazione di Rabelais, il grottesco e l’umorismo nero di Gargatua, cita Boezio, il trovatore Jaufré Rudel, San Tommaso d’Aquino, Schopenhauer e la fata Melusina che a sua volta convoca l’immaginario medioevale.

Nell’ultima parte del romanzo, stemperata una scrittura di grande talento inventivo, si torna invece alla vicenda di David, etnologo ormai avvinto dall’atmosfera del Poitevin. Ma non senza un ultimo colpo di coda sulla la postmodernità conflittuale, sulla necessità di sporgersi fuori dalla concezione più superficiale e condivisa del nostro tempo.

Marco Conti    

Mathias Enard, Il banchetto annuale della confraternita dei becchini  (trad. Yasmina Mélaouah), pp. 471, edizioni e/o; euro 19,00

 

Il romanzo dell’editoria italiana (2)

Gian Arturo Ferrari, ex direttore dei Libri Mondadori, si racconta narrando l’itinerario degli editori. I libri unici della Adelphi, le vicende di Mondadori e Berlusconi; i nuovi brand

Uno speciale contraltare di Einaudi, ma di altissima qualità, si definisce con la fondazione di Adelphi. Non per caso le fondamenta le costruisce Luciano Foà nel 1961, andandosene dalla Einaudi e portando con sé alcuni collaboratori come Giorgio Colli e Bobi Bazlen. Il capitale di partenza? Ci pensa il figlio di Adriano Olivetti, Roberto, con Alberto Zevi. Il primo passo è l’opera completa di Friedrich Nietzsche, al netto delle aggiunte dalla sorella del filosofo e con la competenza filologica di Giorgio Colli che restituisce l’opera in ben 22 tomi. Ma il banco di prova più importante sarà la “Biblioteca Adelphi”, «una collezione di libri letterari non categorizzabili in quanto deliberatamente “unici,  precipitati di fantasia e di vissuto che solo nella forma libro si solidificano e cristallizzano», scrive Gian Arturo Ferrari.

E per fortuna non c’è modo di dargli torto. Dopo i primi exploit la Biblioteca si è arricchita di testi, narrativa e saggistica, di indubbia qualità: da Strindberg a Grossman e Kundera (L’insostenibile leggerezza dell’essere fu un caso letterario clamoroso), dall’acquisizione di Landolfi  e Nabokov, alle opere di René Dumal, Marcel Granet, Emanuele Severino, a quelle riunite nella collana “Il ramo d’oro”.

 Feltrinelli e gli strani casi del “Dottor Živago” e del “Gattopardo”

Pochi anni prima, nel 1955,  erede di un capitale enorme (immobili, aziende in Austria, foreste, partecipazioni in società europee e statunitensi) Giangiacomo Feltrinelli mette insieme una squadra editoriale di tutto rispetto in cui spiccano i nomi di Valerio Riva, Luciano Bianciardi, Nanni Filippini, Mario Spagnol, Giampaolo Dossena. Con un imprenditore com’è Feltrinelli, di carattere ribelle, iniziano a pubblicare Bertrand Russel (Il flagello e la svastica)  e si avviano sulla strada dell’anticonformismo: di sinistra ma senza cipiglio. Arriva così due anni dopo la fondazione l’occasione che ogni editore vorrebbe: un caso internazionale, diritti da vendere, qualità dell’opera e – in più –in perfetta sintonia con il proprio temperamento: Boris Pasternak con il manoscritto inedito (e uscito dall’Unione sovietica di straforo) del Dottor Živago; sarà in libreria con 12 mila copie, poi ne venderà centinaia di migliaia e milioni nel mondo. Il Pci, perde l’occasione di stare zitto. Ferrari ricorda infatti che Rossana Rossanda scrive ad Alicata dicendo che i giornali appena l’hanno recensito e che finirà nel dimenticatoio. E invece…Ecco Collins e Gallimard che scalpitano per averlo, ecco New York con le vetrine inondate dal libro di  Pasternak a cui sarà a breve assegnato il Nobel.  Ma non è tutto.  Feltrinelli fa il “pieno” con un altro libro maltrattato: Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Lo hanno rifiutato tutti, Einaudi e Mondadori compresi, che in questo caso contano, entrambi,  sul giudizio di Vittorini. A voler incaponirsi sul nuovo, sia pure letterariamente inteso, si può far danni. E di fatto a dire sì al libro del principe siciliano sarà Bassani, una delle “Liale” arringate dal Gruppo ’63.

 Letteratura versus capitale

C’è da chiedersi, viaggiando con questo straordinario libro di Ferrari,  se questi ultimi trent’anni di editoria omogeneizzata dai diktat del profitto, avrebbero consentito non  la pubblicazione di un testo composto come Il Gattopardo, ma quelli di Pasolini e Gadda. Livio Garzanti negli anni del boom economico affida alla collana divulgativa “Saper tutto” il compito di far cassa ma pubblica su consiglio del poeta Attilio Bertolucci il romanzo Ragazzi di vita, una narrazione in una lingua gergale, frammentaria, in cui si parla di prostituzione maschile. Non contento l’editore dà la caccia a uno dei grandi del Novecento italiano, restio a mandare in vetrina le sue opere e di ardua lettura per i canoni ordinari: Carlo Emilio Gadda con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Più avanti è la volta di Fenoglio (portato via da Einaudi) e del giovanissimo Goffredo Parise.

 

Certo la questione del denaro non è ininfluente. L’autore e direttore della Mondadori lo sottolinea come meglio non potrebbe. Parlando delle sorti di Einaudi, scrive: «Il tallone d’Achille dell’Einaudi – sempre stato e sempre sarà – sono i soldi. Quelli che servirebbero, quelli che non ci sono. La casa editrice, per dirla in gergo tecnico, è cronicamente sottocapitalizzata. In parole povere non ha i denari sufficienti per sostenere, cioè finanziare, il grandioso programma in cui vuole impegnarsi.» Einaudi non cerca dei soci per non essere condizionato, ricorre ai prestiti e più tardi inventa la rateizzazione che – ancora oggi – è operativa con le varie agenzie Einaudi: dà al lettore la possibilità di acquisire molti libri con un piccolo esborso mensile. Ma i denari tornano lentamente.  Da qui nasce anche l’esigenza di “affittare” il proprio catalogo. Il che accade con la cessione alla Mondadori, nel 1957, del catalogo in edizioni economiche e per dieci anni. Gli Oscar Mondadori si avvantaggiano di titoli e autori di qualità e la casa editrice torinese può nuovamente respirare, così come  accade con la cessione del catalogo scientifico diventato patrimonio della Bollati Boringhieri.  Va detto peraltro sul fronte degli “economici” che il primo editore a creare una collana di grande tenuta fu Rizzoli su consiglio del suo direttore, Rusca: la Bur, fatta di classici della letteratura di ogni tempo e paese, si affacciò nelle librerie al costo di cento-duecento lire offrendo per ogni titolo una introduzione critica e traduzioni non raffazzonate.

Le cose cambiano. Einaudi in difficoltà;  Rizzoli  e “la P2”

Il primo sentore di concentrazioni pericolose nasce negli anni Ottanta. Mentre Einaudi cerca, senza riuscirci, di sopravvivere  editando una serie impressionante di grandi opere: la Storia d’Italia, la Storia della letteratura italiana, la Storia d’Europa, I Greci, La Storia di Roma,  e infine L’Enciclopedia Einaudi,  Rizzoli (siamo nel 1981) corre incontro alla catastrofe. Nel ’74 ha acquistato Il Corriere della Sera e sette anni dopo esplode il caso della Loggia massonica P2 a cui Angelone Rizzoli risulta affiliato con il suo factotum Bruno Tassan Din. L’amministrazione controllata mette una seria ipoteca sugli affari poiché anche gli autori non possono essere pagati. L’agente letterario Eric Linder – sottolinea Ferrari – finisce per trasferire tutti i “suoi” scrittori alla Mondadori: con Enzo Biagi anche John Le Carré, cioè due miniere. Ma i problemi investiranno ugualmente Segrate sotto un altro profilo: la Mondadori ha  fondato nel 1982  il  canale televisivo Rete 4 e la programmazione assorbe una parte gigantesca del fatturato. «Viene in soccorso Enrico Cuccia – spiega l’ex direttore di Mondadori –  che per evitare il fallimento costruisce una delle sue classiche scatole cinesi. Rete 4 viene ceduta a Berlusconi e la maggioranza della Mondadori, il 51 per cento, diventa una finanziaria la cui maggioranza, a sua volta il 51 per cento, resta in mano alla famiglia che in pratica con il 25 per cento mantiene il controllo dell’azienda.»

Ma qui già si può osservare l’anomalia italiana del connubio tra editoria libraria e mediatica, aggravato dalle vicende conflittuali che dagli anni Ottanta arriveranno alle soglie del nuovo secolo. L’autore di Storia confidenziale dell’editoria italiana recensisce i momenti importanti di questo percorso, ma la struttura del libro, a tappe alterne, tra vita vissuta, panorama editoriale ed episodi cruciali, non gli  permette una interpretazione complessiva di queste vicende. Di certo non ha cronaca esaustiva il percorso degli anni Ottanta tra l’acquisizione di quote della CIR di De Benedetti (che porterà L’Espresso in Mondadori)  e che vorrebbe ottenere la maggioranza della casa editrice milanese. Un progetto contrastato da Silvio Berlusconi il quale è già socio di minoranza. Da qui, come è noto, nascerà un lungo contenzioso giudiziario. La scaturigine sarà la morte del presidente di Mondadori Luca Formenton, marito di Cristina Mondadori, nel 1987. I due rami della famiglia si dividono con i rispettivi figli e «scendono in campo i rispettivi alleati, Berlusconi per Leonardo da una parte e De Benedetti, il partito Formenton-Debenedetti, grazie a un colpo di mano (o di stato?), prevale» commenta Ferrari.

La coda del drago

La storia del più grande editore italiano non è però finita con il capitolo De Benedetti. Di fatto la famiglia Mondadori-Formenton, forse sconcertata dai modi impositivi del nuovo presidente incaricato, cioè Caracciolo, fa una giravolta e vende le sue quote a Berlusconi che così le somma a quelle acquisite da Leonardo Mondadori.  Il seguito è guerra aperta nei tribunali. Il cosiddetto “Lodo Mondadori” si conclude momentaneamente solo nel gennaio 1991.

L’impero editoriale

Berlusconi diventa dunque il dominus di un impero mediatico con «tre reti televisive, il primo quotidiano italiano, un’infinità di altri giornali minori. i due principali news magazine. E non da ultimo una casa editrice di libri», chiosa Ferrari. E’ a questo punto che il presidente del Consiglio, Andreotti,  perché organizzi la spartizione. I libri con la vecchia Mondadori resteranno a Berlusconi ma il tema si riproporrà nel 1993 con la celebre «discesa in campo» del leader politico, tanto più che l’anno dopo Berlusconi vincerà le elezioni. Il frangente comporta, nel mondo letterario, qualche netto diniego: Sandro Veronesi e Walter Veltroni lasceranno la Mondadori. Ma Ferrari aggiunge alla questione di merito sul ruolo del leader in ambito letterario che Berlusconi non esercita alcun controllo diretto (il che, invece, secondo la testimonianza dell’autore, accade con Agnelli nel gruppo Rcs, quando Ferrari dirigeva il settore). Ci sono invece i conoscenti di Berlusconi che chiedono talvolta di pubblicare con la sigla di Segrate ma in quei contesti il leader di Forza Italia non impone niente. Invece, quando il giornalista economico Marco Borsa scrive «un libro non tenero su Agnelli, De Benedetti, Romiti, Ferruzzi, Gardini, Pirelli, intitolato Capitani di sventura, con la significativa omissione di Berlusconi», il dominus dell’editoria si ritrova chiamato in causa perché a un’assemblea di Confindustria «Romiti lo ha aggredito per via del libro. Romiti, nel suo stile, pensa che l’autore non conti niente e il direttore editoriale meno di niente. Secondo lui è stato chiaramente Berlusconi a ordire e ordinare questo agguato. Berlusconi mi ingiunge di ritirare il libro, l’ha promesso a Romiti, Io gli dico che non possibile perché i librai sono legalmente i proprietari delle copie che hanno acquistato, Ripiega sul divieto, assoluto, di ristamparlo. Lo ristampiamo due, tre volte senza scriversi copra “seconda edizione”, “terza edizione”».

Einaudi è in vendita

Anche Einaudi finisce tra le braccia di Mondadori. L’editore torinese dopo anni di amministrazione controllata può risolversi solo con la vendita. I candidati sono Guido Accornero (fondatore del Salone del Libro), Luciano Mauri delle Messaggerie Italiane che distribuisce Einaudi e proprietario con Mario Spagnol del gruppo Longanesi e Giorgio Fantoni, editore insieme a Emilio Vitta Zelman, di Electa. Prevarrà nel 1989 quest’ultimo che costituirà una nuova società accordandosi con Mondadori. Si chiamerà infatti Elemond, fusione dei due marchi. Il contratto stabilisce che «di lì a cinque anni (dunque nel ’94) uno dei due soci – presumibilmente Electa – potrà cedere la propria metà all’altro – presumibilmente Mondadori, che sarà obbligato ad acquistarla. In pratica è  una vendita a Mondadori rimandata di cinque anni».

Da questo nuovo accorpamento nasce anche un orientamento non più spiccatamente rivolto alla saggistica – aggiungo in margine al saggio di Ferrero –  come era nella tradizione einaudiana, ma un percorso narrativo che ha due orientamenti: gli autori di qualità letteraria più intellettuale (De Lillo, Roth, Auster, Modiano, Marìas, per restare tra gli “stranieri” ) verranno pubblicati da Einaudi e nascerà la collana dei tascabili  “Et”, secondo Ferrari il vero «pilastro economico della casa editrice». Resta però il fatto che, al di là del catalogo storico, la qualità einaudiana si è persa, né altrove nessuno ha la forza economica e la volontà per ritentare una analoga avventura di alto profilo e numero di titoli.

 I libri della Fiat

«La curiosa situazione per cui la medesima proprietà, la Fiat in ultima analisi, agisce nei libri con due braccia separate – la Rcs da una parte e il gruppo Fabbri (oltre alla Fabbri, Bompiani, Sonzogno ed Etas dall’altra – viene sanata nel ’90 quando il gruppo Fabbri confluisce (è acquistato) in Rcs». Dunque Berlusconi non è il solo a estendersi in quegli anni con grinta nell’impero di carta. Ma nel 2016 Fiat Chrysler lascia il gruppo. La Rcs Libri sarà acquistata per intero da Mondadori,  mentre i giornali, saranno acquisiti da Cairo Communication nello stesso anno.

Una mappa di sigle e concentrazioni

Se non la vetrina, dedicata ai best-seller e ai titoli più vendibili, gli scaffali delle librerie non sono forse mai stati così eterogenei in fatto di sigle editoriali. Almeno all’apparenza e al netto dei gruppi  che invece racchiudono, come il guscio delle noci, gherigli di nomi.  Gli editori che marciano in splendida solitudine sono pochi ma tra questi ci sono, per fortuna, alcune biblioteche di qualità: Adelphi innanzitutto, Sellerio, E/O, Neri Pozza, Nottetempo, Marcos y Marcos, Fazi, il Saggiatore, Cortina e naturalmente  La nave di Teseo, nata dal dispetto dell’omogeneizzazione per iniziativa di Umberto Eco quando ancora (ma qui è Ferrari a parlare) l’antitrust non si era pronunciata sulla Mondadori.   Dopo l’acquisto della Rizzoli Libri, l’antitrust chiese infatti l’alienazione di una parte delle case editrici. Bompiani, Marsilio furono così acquistate la prima da Giunti, la seconda da Feltrinelli.

A proposito di Feltrinelli, nel corso degli ultimi anni, l’editore ha proseguito la strategia legata alle librerie. Oggi rappresenta forse la prima catena di vendita nazionale. Ma nel 2005 dandosi la struttura di Gruppo con Carlo Feltrinelli ha acquisito non solo Marsilio ma Sonzogno, Gribaudo e in ultimo Crocetti, editore di poesia e fino a due anni fa dell’unica e forse più letta rivista di cultura poetica. Con il passaggio editoriale, la rivista è però cambiata: la cadenza è divenuta bimestrale, le recensioni sono scomparse, la grafica e l’edizione lussuosa ne hanno fatto un altro oggetto, prezioso ma meno ricco di contenuti. Nello stesso 2005 è nato anche il Gruppo Mauri Spagnol (Gems) «che comprende le case editrici pazientemente collezionate dagli anni Ottanta da Mario Spagnol e dunque, oltre a Longanesi, Guanda, Salani, Tea, Corbaccio, Ponte alle Grazie, Vallardi». Ma non solo. Del gruppo fanno parte Newton Compton e Chiarelettere, e soprattutto sia Garzanti che Bollati Boringhieri (dal 2009). Mondadori riunisce  invece con il suo brand storico, quelli di Einaudi, De Agosti, Sperling & Kupfer e Fabbri Editori. Ma naturalmente conta sul catalogo storico Rizzoli.

Un’ ultima compagine che, forse per la più discreta presenza in vetrina, rischia di essere dimenticato è Giunti Editore Spa. Ferrari ricorda che dopo l’acquisizione di Bemporad (poi divenuta Marzocco), il gruppo contava sul sempreverde di Collodi, Pinocchio, «maggior successo italiano di tutti i tempi e a quanto si dice il secondo libro più venduto nel mondo dopo la Bibbia».

 

Della fine degli anni Cinquanta è l’acquisizione di Barbèra. Dal ’75 Sergio Giunti orienta l’attività verso l’editoria d’arte e i libri per bambini. Ma ha creato anche una catena di librerie e, come si è detto, ha ottenuto Bompiani (e De Vecchi) senza venir meno a una attività editoriale legata all’infanzia di cui il capitolo forse più rilevante e recente è l’accordo, nel 2014 con Disney Italia e Marvel per i prodotti cartacei e digitali. Il fatturato è straordinario, oggi pare essere, sotto questo aspetto, il secondo editore italiano.

Marco Conti

(2-fine) 

Il romanzo dell’editoria italiana

Gian Arturo Ferrari, ex direttore dei Libri Mondadori, si racconta narrando l’itinerario degli editori: da Treves e Sonzogno alle grandi concentrazioni di oggi

Quante sigle editoriali possiede Mondadori? Quante il Gruppo Mauri Spagnol? Le grandi concentrazioni accompagnano il XXI secolo in gran parte dell’Occidente e sollecitano altre domande sul ruolo dell’editoria, da sempre divisa tra Mammona e la cultura.  Di questa dicotomia parla Gian Arturo Ferrari nel suo Storia confidenziale dell’editoria italiana (Marsilio, 2022), un corposo saggio scritto con agilità ma soprattutto con la competenza di chi nell’editoria è vissuto e ne ha a lungo osservato le due anime l’una contra l’altra armata. Ferrari, docente universitario di storia del pensiero scientifico prima di diventare direttore della saggistica di Mondadori, poi  direttore della Rizzoli, quindi direttore dell’intera divisione Libri del colosso mondadoriano,  racconta la passione di una vita attraverso un itinerario finora inedito. Inedito non solo perché dall’Unità d’Italia arriva a questi giorni, ma perché l’autore diviene narratore della propria esperienza in momenti cruciali di trasformazione.

Si comincia con una retrospezione: Treves e Sonzogno ai tempi dell’ Unità d’Italia. Treves figlio del rabbino di Trieste, Sonzogno «erede scapigliato di una dinastia di tipografi-librai-editori» fin dal Settecento. Entrambi colti (e giornalisti free lance si direbbe oggi) hanno in comune un tratto che diventerà caratteristico dell’editoria italiana: la contiguità tra giornali e libri. Treves fonda nel 1875 l’archetipo della rivista, L’Illustrazione italiana; Sonzogno diventa editore de Il secolo e di una decina di testate; Treves è un monarchico moderato, Sonzogno un democratico radicale. Il primo cerca soprattutto la qualità letteraria, l’altro punta sulle collane popolari e ospita sui suoi giornali i romanzi a puntate. Sembra di vedere lo specchio deformato dell’editoria del dopoguerra con ruoli rovesciati: da un canto i conservatori (Mondadori e Rizzoli), dall’altro Einaudi e Laterza impegnati nella cultura più alta e di sinistra. Ma questo lo aggiungiamo noi. Ferrari, con maggiore precisione, si limita a osservare che Treves si trasformerà da editore di libri a editore di autori (nel suo catalogo ci sono Fosca di Tarchetti, Senso di Camillo Boito, Verga con I Malavoglia e nel 1886 il primo best-seller italiano, Cuore di De Amicis; nel 1889  Il piacere di D’Annunzio); Sonzogno avvicina il popolo alla letteratura con libri di avventura, romanzi condensati e strappalacrime. Ma resta con ciò il vero propulsore democratico perché, come ricorda Ferrari, i votanti in quello scorcio di secolo  rappresentano il 2% della popolazione, donne escluse, e quello che legge è approssimativamente il 5%.

Arnoldo Mondadori e i successi di D’Annunzio

La parabola mondadoriana comincia negli anni Dieci. Arnoldo Mondadori è uno stampatore con sedi a Ostiglia, Verona, Roma, Mantova e con l’arrivo della guerra inizia a capitalizzare grazie  agli ordinativi dei ministeri: una valanga di giornaletti propagandistici, di stampati e moduli e poi libri per le scuole e l’infanzia. In breve, nel 1919 Arnoldo fonda la sua casa editrice, acquisisce l’opera di un romanziere di successo oggi sconosciuto, Virgilio Brocchi, e gli affida la sua prima collana di narrativa “Le Grazie” dove compariranno Alfredo Panzini, Marino Moretti, Corrado Govoni, ma anche i meno fortunati Michele Saponaro, Guelfo Cirinini, Guido Milanesi e Antonio Beltramelli. I successi veri arrivano solo qualche anno più tardi con Ada Negri e Trilussa prima, poi con D’Annunzio che l’editore vuole nella sua squadra per acquistare il prestigio che non ha. La casa editrice resterà a cavallo delle due  forze opposte, denaro e cultura, anche negli anni a venire per quanto alcuni autori importanti come il Fitzgerald del “Grande Gatsby” finisca in collane da edicola. Leggendo Ferrari si ha intanto nozione di quanto un singolo autore o, più spesso ancora, un singolo best-seller, diventino discriminanti per l’intera attività. E’ il caso di Via col vento, titolo fortunato scelto tra altri 17 nel pensatoio mondadoriano. Tra questi “Rapito dal turbine” e “Vento d’uragano”.

Rizzoli, stampatore dei ritratti del Re e del Duce

L’editore destinato a competere a lungo con Mondadori è Angelo Rizzoli che negli anni Trenta è il miglior stampatore della penisola. Tocca a lui mettere sotto i torchi i ritratti del Re e del Duce. Un affare non di poco conto visto che le immagini sono destinate a ornare le pareti di tutte le scuole e di tutti gli edifici pubblici. Ma già alla fine degli anni Venti, Rizzoli (come Mondadori  di umili origini e istruzione formale che si ferma alle elementari) si era aggiudicato la stampa dell’Enciclopedia italiana di scienze, lettere e arti in 36 volumi. Opera che comportò l’acquisizione di capitali nuovi, ovvero di soci: Giovanni Treccani, industriale tessile e fondatore dell’enciclopedia, Ettore Bocconi che fonderà l’università omonima insieme a Senatore (di nome e di fatto) Borletti.  Fatta l’operazione, Rizzoli liquidò i soci e restò unico proprietario. In questo stesso periodo l’editore va disegnando però un impero fondato soprattutto sui giornali. Acquista le riviste che furono di Sonzogno e  Novella (da Mondadori): un periodico che all’epoca pubblica racconti e vende settemila copie al mese. Rizzoli lo trasforma in un settimanale dedicato alle donne: ed ecco dal cappello a cilindro uscire centoventimila copie di tiratura.  Rizzoli  (siamo ancora negli anni Trenta) editerà anche il settimanale inventato da Leo Longanesi, Omnibus, dove collaborano narratori come Bacchelli e Soldati, poeti come Montale, Vittorini, Flaiano; infine viene creata una collana di opere in cui figureranno i nomi di Dino Buzzati (con Il deserto dei tartari) e tra gli altri autori destinati a rimanere, di Elsa Morante.

 

Einaudi, ovvero il profilo alto dell’editoria

Se si esclude Laterza, rinvigorita di idealismo crociano, il paesaggio culturale italiano non ha un editore di saggistica. Ci pensa, ad appena ventun anni, nel 1933, Giulio Einaudi che ottiene i capitali da un banchiere, Luigi Della Torre, da Nello Rosselli (antifascista già scappato in Francia), da un professore e senatore del Regno, Francesco Ruffini, che non ha prestato il giuramento fascista, e dal padre, Luigi, docente di economia e già senatore. Le origini del marchio, in questo caso, faranno la differenza. Tanto più che due anni dopo il “cervello” della Einaudi deve fare i conti con la repressione ideologica fascista: Mila, Pavese, Bobbio, vengono arrestati insieme a Giulio e con loro Vittorio Foa, Franco Antonicelli, Carlo Levi, Luigi Salvatorelli, mentre Leone Ginzburg, già in carcere, morirà in quegli anni torturato dai nazisti. Il confino a cui sono destinati Cesare Pavese e Carlo Levi si trasformerà in seguito in due opere letterarie: Il carcere e, con larghissimo successo di vendite, Cristo si è fermato a Eboli.

La fine della guerra sancisce quindi anche le migliori credenziali democratiche alla casa editrice, tanto più che Giulio Einaudi fu per un breve periodo partigiano garibaldino ad Aosta. D’altro canto la produzione einaudiana non ha rivali in fatto di qualità. Alberto Moravia, ricorda Gian Arturo Ferrari, commenterà lapidario: «Bisogna riconoscere che Einaudi è l’unico editore che non ha mai pubblicato un libro per far soldi.»  Nel dopoguerra, con il successo di Carlo Levi, delle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci e della saggistica, arrivano anche i libri di Pavese, di Italo Calvino (Le fiabe Italiane nei Millenni sono del 1956),  di Natalia Ginzburg a cominciare da Lessico familiare, e quelli della collana “I coralli” fondata da Pavese con le opere di Hemingway, Mann, Fitzgerald, Sartre, e dove esordiscono Arbasino e Bassani. Poi è la volta della traduzione della Recherche proustiana, di Brecht, di Musil, del teatro di De Filippo, mentre Vittorini mette in fila esordienti come Lalla Romano, Ottiero Ottieri, Mario Rigoni Stern, Carlo Cassola, e infine, su altro versante, Jorge Luis Borges.

Ma al netto delle polemiche posteriori (ne fui testimone personale presentando Giulio Einaudi negli anni ’90), polemiche  che volevano ridurre il ruolo della casa editrice in considerazione dell’orientamento marxista, vale la pena di chiarire, come recensisce lo stesso Ferrari che, Einaudi, fu il primo editore italiano a tradurre e a valorizzare la storiografia delle Annales, un nuovo modo di fare storia. Un contributo di enorme valore che rompe un modello di pensiero. Basti pensare che uno dei consulenti Einaudi, Delio Cantimori, storico insigne, aveva dato parere negativo alla pubblicazione di Braudel. La storia all’epoca si faceva sostanzialmente dal punto di vista della politica e delle istituzioni. La storiografia della vita materiale, delle classi subordinate in relazione all’economia, alla cultura antropologica era off-limits. Viceversa furono i Braudel, i Bloch, i Le Roy Ladurie, a cambiare la percezione del mondo.  La collana PBE (e la NUE, sul versante letterario-filosofico), servì anche a questo.

Marco Conti

(1- Continua)

“La promessa”, ovvero la fine della detective-story

Davvero l’intelligenza investigativa arriva alla verità? Friedrich Dürrenmatt è convinto del contrario e il romanzo La promessa ne è la dimostrazione. Sull’ottimismo e sulla fede nel giudizio umano, lo scrittore svizzero aveva già posto l’ipoteca nel 1956 con La Panne. Una storia ancora possibile, dove un rappresentante di tessuti finisce …

Vassalli e l’arte di raccontare


La lettura del vocabolario è più importante dell’ispirazione, l’immedesimazione del narratore con il personaggio è l’atto creativo fondante di una narrazione, la distanza dello scrittore con la materia narrata è ugualmente vitale. Sono consigli di Sebastiano Vassalli contenuti negli appunti con i quali ha parlato del mestiere di «raccontare storie» nei suoi corsi di scrittura. Lezioni, interventi occasionali, fogli di note sparse redatti tra il 1992 e il 2005, compaiono oggi in un volumetto introdotto da Roberto Cicala, Il mestiere di Omero. Come scrivere per raccontare storie.

Le prime pagine sembrano voler procedere con un approccio organico. In realtà Vassalli cita Omero e la figura eroica di Ulisse, per spiegare attraverso i miti la straordinaria stratificazione culturale dell’Occidente e per dirci che il sapere letterario non è inutile:  «Quale progresso avrebbe avuto il genere umano, senza la memoria e senza le storie che ne sono il tramite?» Ma tra narrazione e scrittura si apre un varco di secoli: la letteratura nasce solo come prolungamento della vita umana e ulteriore mito augusteo nel momento in cui l’imperatore affida a Virgilio il compito di narrare la fondazione di Roma.  Così «per noi, oggi, raccontare storie significa scrivere storie.» E con un passaggio altrettanto rapido ma di cruciale esattezza, Vassalli avvicina la postmodernità e la metaletteratura: «A forza di registrare, nei secoli, le nostre storie, la scrittura è diventata un universo parallelo a quello delle cose reali, con leggi e percorsi suoi propri e con una tendenza all’assoluto (al suo assoluto) che è forse il maggior ostacolo, nel presente, all’arte di narrare.»

Narrazione e scrittura

La letteratura come ostacolo? Sebastiano Vassalli parla della stagione che ha fatto della letteratura un oggetto narrativo. E ne può ben parlare perché è stato uno dei protagonisti di quel periodo per quanto ne abbia poi rifiutato ogni pretesa. In Italia la neoavanguardia, il Gruppo ’63, si adoperò  per rimuovere  il realismo promuovendo la pagina di scrittura come evento del linguaggio. Con  Narcisso e Tempo di màssacro, Vassalli entrò nel laboratorio linguistico della sperimentazione per poi uscirne in modo definitivo con la storia di Dino Campana, La notte della cometa.  Lo scrittore ne fa direttamente cenno in questi appunti posteriori senza citare di quel periodo le sue opere, e  scrive: «Chi, come me, è nato circa la metà del secolo scorso in un Paese europeo, si è sentito ripetere in molti modi da molti maestri che tutte le storie, nel mondo, erano già state scritte e raccontate; che non c’era più nulla da raccontare, e che l’unica impresa lodevole e sensata era quella di raccontare il nulla. (Cioè la scrittura). Invece, il mondo è un gomitolo di storie che aspettano ancora di essere dipanate e raccontate: oggi come ai tempi di Omero». E in un altro inciso aggiunge: «Le avanguardie sono le malattie senili dell’arte».

Si comprende allora che le fonti della narrazione sono state chiamate in causa proprio perché Vassalli insiste sulla centralità delle “storie”, vale a dire sull’atto del narrare, la fabula direbbero i formalisti, contro una visione libresca e analitica della letteratura: «Il mio mestiere è scrivere storie. Raccontare storie, non scrivere storie. La relazione con la scrittura è importante ma non determinante.»

Il corteggiamento

Il laboratorio di scrittura di Vassalli inizia con il rapporto che lo scrittore intrattiene con il soggetto della storia e il suo protagonista.  Lo scrittore comincia con l’ideazione: «La prima fase, quella del corteggiamento, è immune da scrittura» mentre coinvolge invece l’immaginario e la categoria delle possibilità. Scrivere è la seconda fase, «un bosco intricato e impenetrabile», dove si innesca la paura di mettersi davanti ad un foglio bianco per dare forma all’informe. Ma a questo punto sarà meglio per l’autore conoscere bene il territorio da attraversare. La documentazione personale, la conoscenza dei luoghi e delle persone che vi si muovono.  Tuttavia luoghi reali e immaginari dovranno ugualmente essere costruiti con la fantasia per sostenere il peso della storia e dei suoi personaggi. «Per quanto mi riguarda – chiosa – posso dire che raccontare storie del passato e con personaggi realmente esistiti, non è molto diverso né più faticoso che raccontare storie del futuro o dell’altrove.»

Più in dettaglio Vassalli raccomanda di avere un progetto per potersi orientare, una “scaletta”. Poi inizia quello che per John Gardner, autore del “Mestiere dello scrittore”, era il lavoro faticoso, un lavoro da contadini. «La prima stesura è per lo scrittore di storie ciò che è il blocco di marmo per lo scultore». E’ il momento più duro perché successivamente l’autore lavorerà su quelle pagine per quanto, in qualche caso occorra procedere a più stesure.  Come diceva Marguerite Yourcenar:  «Si consuma molta carta».

Altri appunti

Vassalli ha scritto raramente versi ma ritiene che la poesia sia «la religione delle parole». Senza entrare nel merito del linguaggio, sembra però propendere per una visione  che fa della lirica un mondo a sé, che «niente ha a che fare con la cultura e l’abilità di maneggiare parole: la poesia accade.» Interpretazione  antica e inspiegata. Né il richiamo ai casi di Rimbaud (sedicenne eruditissimo sulla poesia del suo tempo) e a Campana (tutt’altro che sprovveduto in materia), sono criteri esemplari di giudizio.  Tanto più che lo stesso Vassalli ci convince appieno  quando, in termini generali,  parla della scrittura come distanza e dello specchio di Alice in contrapposizione a quello di Narciso. «Lo specchio di Alice è il linguaggio e la prima distanza è quella tra le parole e le cose. Il secondo passo oltre lo specchio: l’assenza. Vedere il mondo senza di noi. Vederlo come può vederlo il ciottolo o il filo d’erba». Viceversa, in questa suddivisione, lo specchio di Narciso è traslato della semplice mimesi, della riproduzione della realtà. Rispetto allo status della poesia  appena enunciato, si tratta di una contraddizione che lo stesso scrittore fa rilevare.

I consigli al giovane esordiente cui si rivolgono queste note sono numerosi: «Non cercare mai le storie. Vengono da sole. Non imitare nessuno (i sudamericani, Hesse, il “genere patacca”); non scrivere mai “alla maniera di”; dimenticare tutto ciò che si è letto. Siete soli voi e la storia, nel deserto della scrittura». E altrove: «Soprattutto sono importanti i personaggi. Le grandi storie si fanno con i grandi personaggi. I grandi personaggi devono essere costruiti al di fuori dell’autore (non sono lui), ma vivono con la sua vita e vedono con i suoi occhi.» E infine una nozione di modernità della narrazione: la necessità di dire tutto senza spiegare, di dire semplicemente raccontando.

Marco Conti

Sebastiano Vassalli, Il mestiere di Omero. Come scrivere per raccontare storie, (a cura di Roberto Cicala), pp. 89, Interlinea, 2022, euro 14,00

 


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Houellebecq, la poesia e la fisica quantistica

Michel Houellebecq ama la poesia. Ma come ogni poeta detesta i cliché. Forse per questo il primo articolo compreso nel volume Interventi è un vigoroso attacco alla fortuna di Jacques Prévert.  Prévert è presente nei libri di scuola, è entrato nella prestigiosa “Pléiade” e soprattutto rappresenta  un’idea di poesia condivisa, facile, fatta spesso di giochi di parole. Evocando quel mondo lirico, Houellebecq scrive: «Ci sono graziose ragazze nude, borghesi che sanguinano come maiali sgozzati. I bambini sono di una simpatica immoralità, i mascalzoni seducenti e virili, le graziose ragazze nude offrono il proprio corpo ai mascalzoni; i borghesi sono anziani, obesi e impotenti, insigniti della Legion d’onore con mogli frigide; i parroci sono vecchi bruchi disgustosi che hanno inventato il peccato per impedirci di vivere. Conosciamo bene tutto questo. E’ preferibile Baudelaire.» L’autore di Estensione del dominio di lotta non sopporta in sostanza la mediocrità, un vocabolario di trasgressioni passato ormai agli archivi della buoncostume, il surrealismo da chansonnier. «L’intelligenza non aiuta affatto a scrivere belle poesie – commenta – tuttavia  può evitare di scriverne di pessime.»

Scrittore combattuto da una visione catastrofica dell’Occidente di questo XXI secolo, altrettanto deciso a contestare la bugiarda proiezione di un futuro migliore dell’imperante credo liberista tanto nella narrativa che in questi articoli,  Houellbecq è tuttavia interessato al linguaggio lirico fin dagli esordi.  Nel 1991 pubblica un saggio su Lovecraft e una prosa frammentaria, Rester vivant, dove  l’interesse per la poesia si unisce a una visione schopenhaueriana: «Il mondo è sofferenza dispiegata. Alla sua origine, c’è un nodo di sofferenza. Ogni esistenza è espansione e frantumazione.» E altrove: «Il primo passo della poesia consiste nel risalire all’origine. Vale a dire alla sofferenza». Ma proprio per avversione ai cliché, al modernismo, al Rimbaud condiviso di «occorre essere assolutamente moderni», scrive a questo proposito: «Non vi sentite obbligati ad inventare una forma nuova. Le forme nuove sono rare. Una per secolo è già molto. E non sono necessariamente i poeti più grandi ad esserne l’origine.» Visione che dovrebbe essere più insistita davanti ai molti autori di cruciverba in versi.

La bontà contro i sistemi

Il senso della lotta, nel 1996, intercala strofe in alessandrini rimati a stralci di prosa. Vi si fa strada il disagio, un sentimento di non appartenenza legato alla vita contemporanea: «Le antenne della televisione,/ come insetti ricettivi,/ s’aggrappano alla pelle dei prigionieri/i prigionieri rientrano a casa».
La leggibilità del verso di Houellebcq  non fa velo però a una sostanziale presa di posizione per il linguaggio alogico della lirica moderna. In un colloquio con Jean-Yves Jouannais e Christophe Duchâtelet  dove gli interlocutori chiedono quali sia l’elemento unificante dei suoi primi libri (Estensione del dominio di lotta, Restare vivi e la nuova raccolta di poesie La ricerca della felicità), Houellebecq, non ha esitazioni: «In primo luogo, credo, l’intuizione che l’universo sia fondato sulla separazione, sulla sofferenza e sul male; la decisione di descrivere questo stato di cose, e forse di superarlo. Il problema dei mezzi – letterari o no – è secondario. L’atto iniziale è il rifiuto radicale del mondo così com’è; nonché l’interesse per le nozioni di bene o male, la volontà di approfondire tali nozioni, di delimitare la loro egemonia, anche all’interno di me stesso.» In questo contesto, Houellebecq dice di rifiutare i sistemi gerarchici fondati sulla nascita o la fortuna, la bellezza o la forza fisica, l’intelligenza o il talento…«Tutti sistemi che ai miei occhi hanno qualcosa di spregevole; sistemi che rifiuto; l’unico fattore di superiorità che riconosco è la bontà. Oggi ci dibattiamo dentro un sistema a due dimensioni: l’attrazione erotica e il denaro. Da lì deriva tutto il resto, la felicità e l’infelicità delle persone.» La bontà dunque. Una sortita inattesa in un mondo che  sembra collocare la bontà con le preghiere del mattino. Tant’è che, nell’articolo successivo, Houellebecq conferma di essere stato interpellato in proposito. Non ne discuterà in dettaglio, ma l’impressione è che la bontà sia la virtù citata come contraltare di un secolo disposto ad accoglie e omogeneizzare anche il cinismo se condito da un appropriato bon ton ovvero di politically correct.

I quanti di Bohr e la  poesia

Scorrendo le pagine di Interventi, tra un testo che accompagna un’installazione mobile al Centre Pompidou di Parigi, gli apprezzamenti antieuropeisti e un conservatorismo distante da ogni idea corrente e scontata,  il tema della poesia si precisa ulteriormente con l’analisi del linguaggio svolta da Jean Cohen: «La poesia non è la prosa più qualcos’altro, è altro». Non è solo la moltiplicazione di significati, non la trasparenza di un significato soggiacente, ma piuttosto una «parola differente in relazione alla medesima realtà». Una lettura che propone in definitiva una diversa visione del mondo, alogica, rispetto alla lingua ordinaria:  Secondo Michel Houellebecq questo linguaggio ha un significativo punto di contatto con le proposizioni del fisico Niels Bohr in merito alla teoria dei quanti. «La poesia è la dimostrazione che l’impiego sottile e in parte contraddittorio del linguaggio comune aiuta a superarne i limiti. Il principio di complementarietà introdotto da Bohr è una sorta di gestion fine della contraddizione».
In termini più dettagliati, l’interpretazione del mondo referenziale può migliorare introducendo più punti di vista nello stesso tempo. La poesia, conclude lo scrittore, non è l’assurdo ma «l’assurdità resa creatrice».

Marco Conti
Michel Houellebecq, Interventi, pp. 476, La nave di Teseo, 2022, euro 22,00.

 


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