“La promessa”, ovvero la fine della detective-story

Davvero l’intelligenza investigativa arriva alla verità? Friedrich Dürrenmatt è convinto del contrario e il romanzo La promessa ne è la dimostrazione. Sull’ottimismo e sulla fede nel giudizio umano, lo scrittore svizzero aveva già posto l’ipoteca nel 1956 con La Panne. Una storia ancora possibile, dove un rappresentante di tessuti finisce …

Proust e Céleste, a un secolo dalla morte

«Vedrai, il signor Proust è un uomo gentilissimo. Bisogna star molto attenti, questo sì, a non dispiacergli, perché osserva tutto: ma una persona così squisita non l’incontrerai mai».  Così Odilon alla giovane moglie Céleste Albaret, destinata a condividere per nove anni la vita di Marcel Proust, vale a dire gli …

Con Griffi sulle ferrovie del Messico

Una mappa ideale del romanzo “Ferrovie del Messico”

«I tedeschi trascinavano il corpo morto dell’Italia furibondi come Achille sotto le mura di Troia, non avevo notizie di Firmino da quando era tornato dalla Russia, mia madre cucinava pietanze che sapevano di polvere e a me restava una settimana per realizzare una mappa ferroviaria del Messico.»

Nel febbraio 1944, Francesco Magetti, detto Cesco, milite della Guardia ferroviaria nazionale di Asti, ha un indomabile mal di denti e un compito tanto perentorio quanto folle: disegnare una mappa delle ferrovie del Messico. L’ordine arriva dal comando di Torino e questo dal comando tedesco che esegue un imperativo categorico di Berlino. Lo spunto narrativo su cui  Gian Marco Griffi scrive circa ottocento pagine sembra esile ma da qui si diramano le voci dei personaggi  e, con loro, decine di storie che intrecciano la sorte del protagonista consegnandoci un romanzo che, nella narrativa italiana di questi anni,  vive in splendida solitudine. Griffi costeggia e cita talvolta esplicitamente alcuni capitoli della letteratura più innovativa del Novecento, avvicinandosi e distanziandosi in questo modo a diversi registri letterari. Non per nulla la postfazione di Marco Drago parla di «romanzo enciclopedico»  chiamando in causa la letteratura postmoderna e il saggio sulla molteplicità di Italo Calvino nelle pagine delle Cinque lezioni americane.

I personaggi e le voci

Calvino  inscrive nella sua analisi una sequenza di esperienze  eterogenee: dal Flaubert di Bouvard et Pécuchet alle diverse scritture che convivono nell’Ulisse di  Joyce  e, avvicinandoci a noi, al mondo di Jorge Luis Borges e all’espressionismo stratificato,  tra lingua colta e dialetto, di Carlo Emilio Gadda.  Ora Griffi, come Joyce, cambia registro di capitolo in capitolo, passa da quello mimetico  e monologante 1, a quello lirico 2, dalla descrizione metaforica e surreale 3 al comico 4, alla lingua d’invenzione 5 e al grottesco con brani che lo avvicinano in un paio di occasioni ad un autore per nulla canonico come Boris Vian.  Ferrovie del Messico utilizza inoltre  tanto il lessico piemontese quanto la locuzione preziosa o  aulica ma lascia prevalere una sorvegliata, comune, lingua d’uso. Questa continua variazione di registro  è però subordinata a un immaginario singolare. Lo scrittore astigiano connette l’espansione della sua storia (Francesco Magetti alle prese con la carta ferroviaria del Messico) alle avventure di profili improbabili: una colta bibliotecaria borderline, due necrofori con un passato di picari in Sudamerica, un bibliofilo aristocratico, due disertori,  un sedicente poeta che classifica la rilevanza degli autori in base al loro suicidio, un impiegato tedesco troppo ligio al dovere, un profilo di Hitler guancia a guancia con Eva in cerca dell’arma letale e risolutiva in una visione del Terzo Reich iù vicina al teatro di Ubu Roi  che a qualsiasi nozione storica. Ma proprio questo è il luogo d’elezione del romanzo. Le avventure tragicomiche di Cesco Magetti con le diversioni e i sentieri intrapresi dalla sua umanità, vivono nel cuore di un immaginario che – attraverso citazione e parodia 6, attraverso la frammentazione dei registri – sembra scaturire da un sentimento di nostalgia per le storie, o meglio… per la tradizione, in una parola per il canone.

Picari, anarchici, poeti

La libertà con cui lo scrittore percorre i sentieri della narrazione scorre  parallela alla libertà dei suoi personaggi: dal protagonista investito dal compito assurdo di redigere una mappa ferroviaria,  all’impiegato tedesco Bardolf Graf che riceve in regalo un libro intitolato  Storia poetica e pittoresca delle ferrovie del Messico, tutti sono in conflitto con l’ambiente circostante. La galleria di Griffi convoca un mondo di emarginati e anarchici per vocazione che marciano sull’orlo del baratro. Il contesto storico, tratteggiato a larghe pennellate, ritrae la precarietà della guerra e dell’invasione, ma è di pari passo caratterizzato da contesti immaginari di cui è esempio eloquente la “Divisione ferroviaria del dipartimento suicidi statali assistiti” nella Berlino del 1943, vale a dire  unna caricatura della burocrazia.

Sulle tracce degli antecedenti che portano il comando tedesco a richiedere una mappa delle ferrovie messicane, l’autore spalanca dunque una porta che, trascorrendo dal comico al surreale, declina l’architettura goffa e pretenziosa del potere. La Divisione ferroviaria tedesca è un palazzo «composto d’un numero indefinito e forse infinito, di piani ottagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, circondati da ballatoi con ringhiere intarsiate a mano» dove si può scoprire l’esistenza di un “Ufficio per il controllo dei regali ai dipendenti”. Il contraltare di tanta architettura sarà invece il club clandestino dell’Aquila agonizzante dove nottetempo si incontra l’umanità di resistenti e fuggitivi astigiani.

Assurdo e postmodernità

Tirando le fila del romanzo, disperse tra le sorti dei personaggi,  le nozioni di assurdo e di comico si legano alla ricchezza del linguaggio e delle storie che si ritagliano capitolo dopo capitolo. Ma vale la pena di soffermarsi sulle implicazioni della scrittura di Griffi. Guido Almansi, citato in postfazione, parlò del romanzo postmoderno di Thomas Pynchon dicendo che esso deve contenere una «analisi dello sfacelo, la coscienza del collasso, una testimonianza della frammentazione, una critica radicale del concetto di verità». Sembra una descrizione parziale dell’atmosfera e del modo di procedere di Ferrovie del Messico. Parziale perché i registri usati e i punti di vista  (si parla in prima persona o in terza e a raccontare sono tanto i personaggi contemporanei alla vicenda quanto quelli citati e vissuti in un tempo precedente) trovano un accordo unanime nel disegno complessivo, nel piacere dell’affabulazione in sé e nella nostalgia di un tempo capace di produrre avventura. E’ forse anche ciò che si avverte in certe pagine di Roberto Bolaño, in qualche caso (I detective selvaggi) analogamente segmentate. Ma i luoghi d’elezione della postmodernità si identificano altrove: in Rayuela di Cortázar, nel Georges Perec di La vie mode d’emploi , nel Calvino de Il castello dei destini incrociati  dove è sempre qualificante la leggerezza del gioco combinatorio: pagine dove intelletto e immaginario vivono, algidi, lontano dalla fisicità e dall’emozione e dall’esperienza. Rispetto a quest’ultima biblioteca ideale Gian Marco Griffi  si smarca. Le sue pagine richiamano una fisicità fortemente connotata e referenziale;  l’eterogeneità delle voci non si offre mai come gioco intellettuale o digressione concettuale.  Il registro del comico convive con l’iperbole dell’immaginario, il “parlato” include tanto lo gnommero di Gadda e le preziosità quanto il lessico piemontese (un glossario esemplificativo vi include: il gheddu, cioè il guizzo intellettuale; rancare per estirpare;  frustacadreghe per pigrone). E come una promessa di poetica, uno dei suoi personaggi, Tilde, dice: «Essere lirici e ironici è la sola cosa che ci protegge dalla disperazione assoluta. Io abito il mio lirismo, Cesco, per continuare ad amare la vita».

Griffi ci suggerisce di amare la narrazione come le ama lui. Scrive per Ferrovie del Messico  un sottotitolo esplicito: Romanzo d’avventura; insiste sulla centralità dell’atto narrativo nella sua valenza più essenziale. E in questo contesto scrive la pagina conclusiva del romanzo qualificandola come “Seconda parte”.  Venti righe, non di più, in cui l’autore annuncia la prosecuzione  delle vicende in Messico, in Argentina  e altrove.  Griffi insomma è ben lontano dal fornire una riproposta della narrazione postmoderna. Ferrovie del Messico viceversa ne usa la strategia e alla biforcazione del sentiero prende una strada affatto diversa. Di questo romanzo sentiremo parlare a lungo.

Marco Conti

Gian Marco Griffi, Ferrovie del Messico, pp. 816, Laurana Editore, 2022; euro 22,00

*

1. «E insomma hanno ordinato per me un panino al prosciutto, senza neppure sapere se mi piacesse, il prosciutto, fortuna che ne sono ghiotto, e me lo hanno fatto mangiare in santa pace, mentre lo mangiavo ho pensato a cosa significasse essere un tipo solitario, ma quello che teneva la sigaretta spenta ha interrotto il flusso dei miei pensieri». Pag. 87

2. «(…) è il cinquantadue e nascosta in soffitta leggi un’altra cartolina mentre Dio ha fatto un temporale che esplode sopra i tetti, i tuoni rimbalzano sulle tegole come palloni calciati dalla luna, il vento uggiola tra le imposte e strilla tra le chiome degli alberi, le travi cigolane e le voci umane si confondono nel battito martellante della grandine sui coppi e sui teloni della serra». Pag. 283

3. «Mario Emilio Camillo Bertone venne al mondo il sedici dicembre, mercoledì, una notte che la luna era simile a un seme di girasole, accanto a un fiume dispiegato nella bordura delle colline; si narra fu accolto nelle pianure ubriache di vino fumante e perforato dal trapano dell’amore, in cinque minuti scarsi fu strappato dall’ombra, venuto nel mutismo delle allodole e delle cicale, nel mortorio degli insetti, subito fu braccato dal freddo e lambito dai lupi». Pp. 336-7

4. «Questa cosa del Partito nazionalsocialista, domandò Eva, è un lavoro vero? Talvolta me lo chiedo anch’io, disse Adolf. E mi rispondo che no, non è un lavoro. Eì una vocazione. Baciami, testone, disse Eva».p. 224

5. «Allora ho inforcato le barde di mocoletto e mi sono sporto per allumarla meglio, e che i viscosi (…)» P. 139

6. «E allora adiόs, mi querida Norah, adiόs, lascia che vada ora, per certi angiporti celati da cespugli di lentischi spinosi, e siepi di cosmee gialle e azzurre, mil veces adiόs, lascia che viva in sbandati ricoveri nelle stanze pulciose di motel fuori mano dove misuro la mia vita con palle da tennis squarciate e bicchieri vuoti (…) ». P. 624. Griffi fa la parodia dei primi celebri versi de “Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock” di  T.S. Eliot nella traduzione di Roberto Sanesi:  

«Allora andiamo, tu ed io,

Quando la sera si stende contro il cielo

Come un paziente eterizzato disteso su una tavola;

Andiamo, per certe strade semideserte,

Mormoranti ricoveri

Di notti senza riposo in alberghi di poco prezzo

E ristoranti pieni di segatura e gusci d’ostriche (…)»

Némirowsky, Scrivere fa passare il tempo

  «Irène trasferita oggi improvvisamente destinazione Pithiviers (Loiret).» Con queste parole Michel Epstein comunica a André Sabatier, redattore della casa editrice Albin Michel, che la moglie, Irène Némirovsky, è stata arrestata il 13 luglio 1942. Il marito della scrittrice chiede di intervenire a chiunque gli venga in mente fra le …

L’eredità di Franz Kafka: tradire per salvare

E’ una fortuna per la letteratura che Max Brod non abbia eseguito la volontà di Kafka, almeno quanto lo è che Ottaviano non abbia bruciato l’Eneide di Virgilio come gli era stato chiesto dal poeta. Ma tutto sommato Virgilio ha avuto più fortuna perché la storia dei manoscritti di Kafka è tormentata per non dire davvero kafkiana. Infatti, così come Brod non se l’era sentita di dare alle fiamme le opere dell’amico, la catena di volontà testamentarie tradite era destinata a continuare. La storia comincia con la morte dell’autore nel 1924.

Kafka dà all’amico Max, giornalista e scrittore egli stesso, un compito preciso. Vuole che siano conservati i manoscritti di La Metamorfosi (1915) che peraltro ha pubblicato nel 1916, La colonia penale (1919), Un medico di campagna (1919),  Il digiunatore (1922) e due narrazioni giovanili scritte nel 1913, Bambini sulla via maestra e Il verdetto. Questo il lascito già espresso in una lettera del 20 novembre 1922. Kafka chiedeva inoltre che fossero bruciate le lettere inviate a Felice B.

Le opere da salvare

Max Brod allo scrittoio in due epoche diverse

La sua richiesta di certo teneva conto del fatto che i romanzi e molti racconti erano rimasti incompiuti (così come lo era l’Eneide di Virgilio). Ma Brod non resiste, non comprende le esitazioni di Kafka il quale gli aveva confidato che, comunque , la conclusione del romanzo Il processo non avrebbe potuto aggiungere nulla di rilevante a quanto aveva detto. Già l’anno dopo Il processo è alle stampe e, nel 1926, esce  nelle librerie praghesi Il  castello.  Da un canto Brod sapeva che Kafka non ci teneva a pubblicare, dall’altro considerò forse che l’amico si affidava a lui anche nel giudizio delle opere.

Nel 1939,  davanti all’avanzata nazista in Cecoslovacchia, Max Brod decide di lasciare l’Europa e rifugiarsi in Israele portando con sé la valigia dei manoscritti. E proprio in Israele la catena dell’eredità va incontro ad altri tradimenti, per quanto ormai  la letteratura occidentale ne stia facendo un autore imprescindibile: da un canto l’opera di Kafka investe il mondo del surrealismo, dall’altro i temi espressi coinvolgono riflessioni di filosofia morale, interpellano l’esistenzialismo, o danno luogo a letture marxiane della società.

 

Il secondo tradimento

Nel 1968 Brod lascia la proprietà dei manoscritti (non tutto è stato pubblicato) alla sua segretaria Esther Hoffe con l’indicazione di conferire i testi prioritariamente all’Università ebraica di Gerusalemme o alla Biblioteca pubblica di Tel Aviv.  Ma Esther non rispetterà affatto queste volontà. La segretaria venderà una parte dei manoscritti all’Archivio nazionale della letteratura tedesca, mentre altri saranno dati  in eredità alle sue due figlie, Eva e Ruth.

Edizione tedesca de Il castello

La battaglia legale

A questo punto non vi saranno più tradimenti testamentari ma si aprirà invece un conflitto per il possesso dei manoscritti anche se le opere in questione (per esempio La lettera al padre) sono già pubblicate da tempo. Alla morte di Esther infatti la Biblioteca di Tel Aviv dà inizio a una lunga battaglia legale. La Corte Suprema di Gerusalemme decise che l’eredità di Kafka non potesse essere che ebraica anche se la lingua usata da Kafka è il tedesco. Si disse inoltre che se quei manoscritti non fossero arrivati in Israele sarebbero stati dispersi dal mercato privato. Il che è difficilmente contestabile. Di fatto sono prevalse le ragioni della Biblioteca nazionale d’Israele. Nel 2013 la polizia tedesca ha rintracciato tre valigette con migliaia di fogli che giungevano dalla casa delle figlie di Esther. Sono state trovate in un vecchio frigorifero rotto e restituite a Israele.

E’ occorso quindi un intero secolo per dare una dimora pubblica a una delle opere più importanti del Novecento. Tra i documenti compare la prima versione del racconto Preparativi di nozze in campagna. Cinquantotto pagine che, nell’ultima redazione di Kafka, diventarono solo cinque. In quelle valige si trovava anche il dattiloscritto della Lettera al padre con l’ultima pagina scritta a mano. Inutile aggiungere che il padre non la lesse mai.

François Morane

 

 

Singer, storia di una storia di un amico di Kafka

Leggendo Isaac Bashevis Singer ho sempre avuto  l’impressione di essere in un mondo parallelo. Sono in un villaggio polacco o nel quartiere ebraico di Varsavia negli anni Trenta, oppure a New York nel secondo dopoguerra, ma le suggestioni della distanza storica non mi spiegano a sufficienza questo straniamento, e neppure …

Il canzoniere di Patrizia Cavalli

Patrizia Cavalli, una delle voci più originali del secondo ‘900 italiano, è morta ieri a Roma. Era nata a Todi nel 1947

«Vado, ma dove? oh dei!»

In questo incipit di Patrizia Cavalli, c’è una parte cospicua dell’originalità di timbro e temi dell’autrice. La poesia, inclusa nella raccolta L’io singolare mio proprio, con il registro giocoso e lieve che accompagna l’opera fino alle ultime battute, porta il lettore al centro del canone classico. Come l’intera opera anche questa è una lirica intessuta di amore e disamore, scaturita dall’assenza, dal dubbio, come altrove dalla vacuità dell’essere. Non a caso molte poesie cominciano con una domanda o un periodo ipotetico, non a caso il discorso si dissolve nell’attimo e nella circostanza richiamata dal testo attraverso lunghi enjambement. Ecco la lettura completa della poesia citata:

«Vado, ma dove? oh dei!»
Sempre al bar, al ristorante, nei musei
a ciondolare anoressica o bulimica
sempre tra le due madri
quella che mi ama falsamente
e mi vorrebbe privare di ogni cibo
e l’altra che mi ama falsamente
e mi vorrebbe uccidere di cibo,
e io costretta a uno dei due eccessi
o l’astinenza o l’incontinenza
e intanto guardo il bel viso di un ragazzo
sempre lontano dai miei veri amori
spinta al turismo da cerberi
infelici viaggiatori.

Come si è spesso chiosato,  la poesia di Patrizia Cavalli assume la scena di un momento, la quotidianità (parola detestata dall’autrice peraltro) per portare il verso all’incontro con un’assenza, un limite, ma essi stessi pronunciati con una voce che sottrae peso, che induce alla leggerezza e dove la rima sembra quasi fortuita nell’incedere idiomatico, gli accenti tonici un caso come quegli dei che baciano i musei al secondo verso.

L’iperbole al rovescio e il classicismo

Il carattere che struttura fin dagli esordi il mondo di queste pagine è quello della riduzione: riduzione dell’io lirico, presente ma dimesso, e riduzione del tempo storico a incidentalità.  Il titolo del primo libro, Le mie poesie non cambieranno il mondo,  vive sotto questo segno benché  sia stato scelto da Elsa Morante…Nel 1974 (data della pubblicazione) la titolazione assertiva sembra infatti un annuncio polemico fatto per sottrarsi al dibattito intellettuale in corso. L’iperbole retorica percorre così ampiamente il senso più raro della figura. E fin dall’inizio è una contingenza dichiarata, non una epifania, a dare energia al testo facendo convergere ogni elemento ai confini di quanto è pronunciabile.

Anche quando sembra che la giornata 
 sia passata come un’ala di rondine, 
come una manciata di polvere
 gettata e che non è possibile
 raccogliere e la descrizione 
il racconto non trovano necessità
 né ascolto, c’è sempre una parola 
una paroletta da dire
 magari per dire 
che non c’è niente da dire.

Il contrappasso è clamoroso: si addensano in questi versi con l’evocazione (in assenza) del crepuscolo, la fugacità (l’ala di rondine) e l’inconsistenza del reale (una manciata di polvere) mentre l’ispirazione è contraddetta per affermarsi: la descrizione e il racconto non trovano necessità, tanto che una paroletta espressa coincide con la sua vacuità. Eppure mentre il dibattito critico ferve intorno alla neo-sperimentalismo e l’orfismo, mentre la poesia diventa oggetto tematico, Patrizia Cavalli adopera gli strumenti del canone per ribaltare ogni pretesa necessità intrinseca nel lavoro letterario del tempo. E’ vero che risulta frequente qui la pronuncia dell’epigramma diaristico («Ma per favore con leggerezza/ raccontami ogni cosa/ anche la tua tristezza», scrive nella stessa raccolta d’esordio) ma in realtà – e senza il ricorso a quella adesione del verso al modello del sonetto come farà negli anni ’80 Patrizia Valduga – proprio questo primo libro sembra incuneare la “prosa”, l’idioma, a cui tendono molti versi degli anni Settanta nell’alveo della classicità e di una indefettibile chiarezza. Dato che inserisce Patrizia Cavalli in una linea di tendenza alla pronuncia classica del verso, linea che congiunge Saba a Penna e a cui sono tutt’altro che estranei sia Pasolini, sia Dario Bellezza. Nel fervore un po’ artefatto della critica engagé, la poesia di Cavalli piacque anche ad Alfonso Berardinelli, polemico nei confronti della lirica “oscura”.

Il cielo

La seconda raccolta, Il cielo (1981) privilegia il tema dell’assenza, del disamore, non senza una sottostante visione filosofica. Ecco in apertura del libro il “paesaggio emotivo” con immagini decisive della vacuità e del desiderio:

Quella nuvola bianca nella sua differenza 
insegue l’azzurro sempre uguale:
lentamente si straccia nella trasparenza
 ma per un po’ mi consola del vuoto universale. 
E quando cammino per le strade 
e vedo in ogni passo una partenza
vorrei accanto a me un bel viso naturale. 

Più avanti l’assenza riprende corpo ed è allora marcatamente la banalità dell’ambiente familiare a controbilanciare una “nuvola che si scolora” con la sua promessa di libertà. Anzi è la prigione delle passioni, confermano i versi di Patrizia Cavalli, ad essere desiderata:

Adesso che il tempo sembra tutto mio
 e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena,
 adesso che posso rimanere a guardare
 come si scioglie una nuvola e come si scolora,
 come cammina un gatto per il tetto
 nel lusso immenso di una esplorazione, adesso 
che ogni giorno mi aspetta la sconfinata lunghezza di una notte
 dove non c’è richiamo e non c’è più ragione 
di spogliarsi in fretta per riposare dentro 
l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta, 
 adesso che il mattino non ha mai principio 
e silenzioso mi lascia ai miei progetti
 a tutte le cadenze della voce, 
adesso vorrei improvvisamente la prigione.  

E’ forse uno dei testi più belli e compatti della silloge dove il discorso monologante cresce e si carica di tensione attraverso l’iterazione quasi percussiva dell’avverbio adesso.

Pigre divinità e pigra sorte

Risalendo tra gli esiti e le matrici, in Pigre divinità e pigra sorte (2006) dopo Sempre aperto teatro (1999), sembra che Patrizia Cavalli radicalizzi l’interrogazione filosofica, ne voglia osservare l’ampiezza come aprendo un ventaglio. Un versante che diviene cospicuo perché se la scena quotidiana, il gioco del «Sempre aperto teatro»  sono state le costanti, altrettanto decisivi sono l’orrore della gratuità esistenziale e le domande esplicite sull’identità e il tempo. Tant’è vero che la compattezza dell’opera appare indiscutibile, come ha scritto John Ashbery  in poche parole presentando nel paratesto la traduzione americana: «Come Emerson Patrizia Cavalli dice sempre la stessa cosa e ogni volta è incredibilmente fresca e sorprendente. Il mondo cambia raccontandolo». Ed eccoci quindi a ridosso di quella scorrevole discorsività che contraddistingue i testi della Cavalli: l’incontro con il nume, con la fortuna, o meglio con l’ineffabile casualità del mondo.

Pigre divinità e pigra sorte
cosa non faccio per incoraggiarvi,
quante occasioni con fatica vi offro
solo perché possiate rivelarvi!
A voi mi espongo e faccio vuoto il campo
e non per me, non è nel mio interesse,
solo per farvi esistere mi rendo
facile visibile bersaglio. Vi do
anche un vantaggio, a voi l'ultima mossa,
io non rispondo, a voi quell'imprevisto
ultimo tocco, rivelazione
di potenza e grazia: ci fosse un merito
sarebbe solo vostro. Perché io non voglio
essere fabbrica della fortuna
mia, vile virtù operaia che
mi annoia. Avevo altre ambizioni, sognavo
altre giustizie, altre armonie: ripulse
superiori, predilezioni oscure,
d'immeritati amori regalie.

L’ultimo tempo

Elsa Morante con Bernardo Bertolucci, Adriana Asti, Pier Paolo Pasolini.  Elsa Morante propiziò l’esordio del primo libro della Cavalli, “Le mie poesie non cambieranno il mondo” (1974), una sorta di controcanto del libro della Morante, “Il mondo salvato dai ragazzini” del 1967

Il desiderio di conoscere e la prospettiva etica dell’esistenza, si fanno più perentori negli ultimi due libri: Datura nel 2013 e Vita meravigliosa nel 2020. I paesaggi interiori prima articolati con poche movenze e immagini, emergono in entrambi i libri ma in “Datura” prende corpo una voce a tratti più ampia di volute monologanti. Lo stesso titolo,  allusivo della pianta che induce la visione (Datura Stramonium),  sembra allontanare la poetessa dal dato circostanziale, dall’immagine colta al volo mentre  resta quasi immutata  l’essenzialità del dettato. La lirica “Ma io non voglio andarmene così”  esprime con assoluta chiarezza la ricerca svolta in poesia assumendo proprio la lingua poetica come tema:

Ma io non voglio andarmene così, 
lasciando tutto come ho trovato 
in questa scialba geografia che assegna
 l’effetto alla sua causa e tutti e due consegna
 all’umile solerzia dell’interpretazione.  
Un altro è il mio progetto, la mia ambizione
 è accogliere la lingua che mi è data
 e, oltre il dolore muto, oltre il loquace 
il suo significato, giocare alle parole
 immaginando, senza un’identità, una visione.  

Altrove, nello stesso, libro Patrizia Cavalli dispiega un verso poematico. Così accade in La patria e L’angelo labiale. Ma sorprende soprattutto un terzo poemetto, La maestà barbarica. Qui l’autrice  dà voce alla fisionomia di un personaggio per parlare di poesia, di una donna invischiata nella propria capacità retorica. Tanto che dalla terza persona Cavalli passa alla prima per soggiungere: «Io non oso parlarle, / ma la guardo sempre, / discosta e laterale. Ogni giorno/ ho bisogno di vederla. se non la vedo, la vado a cercare (…)». La ricerca, l’interrogazione, trascorre dal passato al futuro con Vita meravigliosa  dove l’immaginario torna formalmente dentro le misure consuete dell’autrice per chiosare intorno all’ultimo approdo, ad un paradiso incerto come ogni cosa: «prima di morire/ forse potrò capire/ la mia incerta e oscura condizione/. Forse per non morire/continuo a non capire/sicura in questa chiara confusione.»  Il predominio del tema, che isola e percuote, non toglie leggerezza al verso a cominciare dal poemetto dedicato all’autrice e amica scrittrice, Con Elsa in paradiso, per proseguire e voltarsi per traguardare l’esiguità del suo tempo. «Ma quel che ho visto si è tutto cancellato./ E quasi non avevo cominciato». Sbagliava Patrizia Cavalli parlando di un disegno incompiuto. La tela in questione è qui, forte più di quanto non prometta molta poesia di ieri e di oggi.

Marco Conti

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