Addio a Lapierre, autore della “Città della gioia”

«Tutto ciò che non viene donato va perduto». Questo proverbio indiano Domenique Lapierre lo ha posto in epigrafe del suo romanzo più letto, La città della gioia; figura nell’intestazione della associazione per i bambini lebbrosi della città di Calcutta della fondazione Lapierre e fa da scorta al conto corrente che …

“La promessa”, ovvero la fine della detective-story

Davvero l’intelligenza investigativa arriva alla verità? Friedrich Dürrenmatt è convinto del contrario e il romanzo La promessa ne è la dimostrazione. Sull’ottimismo e sulla fede nel giudizio umano, lo scrittore svizzero aveva già posto l’ipoteca nel 1956 con La Panne. Una storia ancora possibile, dove un rappresentante di tessuti finisce …

Proust e Céleste, a un secolo dalla morte

«Vedrai, il signor Proust è un uomo gentilissimo. Bisogna star molto attenti, questo sì, a non dispiacergli, perché osserva tutto: ma una persona così squisita non l’incontrerai mai».  Così Odilon alla giovane moglie Céleste Albaret, destinata a condividere per nove anni la vita di Marcel Proust, vale a dire gli …

Letture in casa Einaudi: i promossi e i bocciati

Come pensa e come giudica il consulente di una grande e prestigiosa casa editrice? Centolettori. I pareri di lettura dei consulenti Einaudi 1941-1991 risponde, almeno sotto il profilo storico a questa domanda. Cinquant’anni di opere, di valutazioni, ma soprattutto di impliciti confronti tra lettori ormai parte della storia letteraria e …

Vassalli e l’arte di raccontare


La lettura del vocabolario è più importante dell’ispirazione, l’immedesimazione del narratore con il personaggio è l’atto creativo fondante di una narrazione, la distanza dello scrittore con la materia narrata è ugualmente vitale. Sono consigli di Sebastiano Vassalli contenuti negli appunti con i quali ha parlato del mestiere di «raccontare storie» nei suoi corsi di scrittura. Lezioni, interventi occasionali, fogli di note sparse redatti tra il 1992 e il 2005, compaiono oggi in un volumetto introdotto da Roberto Cicala, Il mestiere di Omero. Come scrivere per raccontare storie.

Le prime pagine sembrano voler procedere con un approccio organico. In realtà Vassalli cita Omero e la figura eroica di Ulisse, per spiegare attraverso i miti la straordinaria stratificazione culturale dell’Occidente e per dirci che il sapere letterario non è inutile:  «Quale progresso avrebbe avuto il genere umano, senza la memoria e senza le storie che ne sono il tramite?» Ma tra narrazione e scrittura si apre un varco di secoli: la letteratura nasce solo come prolungamento della vita umana e ulteriore mito augusteo nel momento in cui l’imperatore affida a Virgilio il compito di narrare la fondazione di Roma.  Così «per noi, oggi, raccontare storie significa scrivere storie.» E con un passaggio altrettanto rapido ma di cruciale esattezza, Vassalli avvicina la postmodernità e la metaletteratura: «A forza di registrare, nei secoli, le nostre storie, la scrittura è diventata un universo parallelo a quello delle cose reali, con leggi e percorsi suoi propri e con una tendenza all’assoluto (al suo assoluto) che è forse il maggior ostacolo, nel presente, all’arte di narrare.»

Narrazione e scrittura

La letteratura come ostacolo? Sebastiano Vassalli parla della stagione che ha fatto della letteratura un oggetto narrativo. E ne può ben parlare perché è stato uno dei protagonisti di quel periodo per quanto ne abbia poi rifiutato ogni pretesa. In Italia la neoavanguardia, il Gruppo ’63, si adoperò  per rimuovere  il realismo promuovendo la pagina di scrittura come evento del linguaggio. Con  Narcisso e Tempo di màssacro, Vassalli entrò nel laboratorio linguistico della sperimentazione per poi uscirne in modo definitivo con la storia di Dino Campana, La notte della cometa.  Lo scrittore ne fa direttamente cenno in questi appunti posteriori senza citare di quel periodo le sue opere, e  scrive: «Chi, come me, è nato circa la metà del secolo scorso in un Paese europeo, si è sentito ripetere in molti modi da molti maestri che tutte le storie, nel mondo, erano già state scritte e raccontate; che non c’era più nulla da raccontare, e che l’unica impresa lodevole e sensata era quella di raccontare il nulla. (Cioè la scrittura). Invece, il mondo è un gomitolo di storie che aspettano ancora di essere dipanate e raccontate: oggi come ai tempi di Omero». E in un altro inciso aggiunge: «Le avanguardie sono le malattie senili dell’arte».

Si comprende allora che le fonti della narrazione sono state chiamate in causa proprio perché Vassalli insiste sulla centralità delle “storie”, vale a dire sull’atto del narrare, la fabula direbbero i formalisti, contro una visione libresca e analitica della letteratura: «Il mio mestiere è scrivere storie. Raccontare storie, non scrivere storie. La relazione con la scrittura è importante ma non determinante.»

Il corteggiamento

Il laboratorio di scrittura di Vassalli inizia con il rapporto che lo scrittore intrattiene con il soggetto della storia e il suo protagonista.  Lo scrittore comincia con l’ideazione: «La prima fase, quella del corteggiamento, è immune da scrittura» mentre coinvolge invece l’immaginario e la categoria delle possibilità. Scrivere è la seconda fase, «un bosco intricato e impenetrabile», dove si innesca la paura di mettersi davanti ad un foglio bianco per dare forma all’informe. Ma a questo punto sarà meglio per l’autore conoscere bene il territorio da attraversare. La documentazione personale, la conoscenza dei luoghi e delle persone che vi si muovono.  Tuttavia luoghi reali e immaginari dovranno ugualmente essere costruiti con la fantasia per sostenere il peso della storia e dei suoi personaggi. «Per quanto mi riguarda – chiosa – posso dire che raccontare storie del passato e con personaggi realmente esistiti, non è molto diverso né più faticoso che raccontare storie del futuro o dell’altrove.»

Più in dettaglio Vassalli raccomanda di avere un progetto per potersi orientare, una “scaletta”. Poi inizia quello che per John Gardner, autore del “Mestiere dello scrittore”, era il lavoro faticoso, un lavoro da contadini. «La prima stesura è per lo scrittore di storie ciò che è il blocco di marmo per lo scultore». E’ il momento più duro perché successivamente l’autore lavorerà su quelle pagine per quanto, in qualche caso occorra procedere a più stesure.  Come diceva Marguerite Yourcenar:  «Si consuma molta carta».

Altri appunti

Vassalli ha scritto raramente versi ma ritiene che la poesia sia «la religione delle parole». Senza entrare nel merito del linguaggio, sembra però propendere per una visione  che fa della lirica un mondo a sé, che «niente ha a che fare con la cultura e l’abilità di maneggiare parole: la poesia accade.» Interpretazione  antica e inspiegata. Né il richiamo ai casi di Rimbaud (sedicenne eruditissimo sulla poesia del suo tempo) e a Campana (tutt’altro che sprovveduto in materia), sono criteri esemplari di giudizio.  Tanto più che lo stesso Vassalli ci convince appieno  quando, in termini generali,  parla della scrittura come distanza e dello specchio di Alice in contrapposizione a quello di Narciso. «Lo specchio di Alice è il linguaggio e la prima distanza è quella tra le parole e le cose. Il secondo passo oltre lo specchio: l’assenza. Vedere il mondo senza di noi. Vederlo come può vederlo il ciottolo o il filo d’erba». Viceversa, in questa suddivisione, lo specchio di Narciso è traslato della semplice mimesi, della riproduzione della realtà. Rispetto allo status della poesia  appena enunciato, si tratta di una contraddizione che lo stesso scrittore fa rilevare.

I consigli al giovane esordiente cui si rivolgono queste note sono numerosi: «Non cercare mai le storie. Vengono da sole. Non imitare nessuno (i sudamericani, Hesse, il “genere patacca”); non scrivere mai “alla maniera di”; dimenticare tutto ciò che si è letto. Siete soli voi e la storia, nel deserto della scrittura». E altrove: «Soprattutto sono importanti i personaggi. Le grandi storie si fanno con i grandi personaggi. I grandi personaggi devono essere costruiti al di fuori dell’autore (non sono lui), ma vivono con la sua vita e vedono con i suoi occhi.» E infine una nozione di modernità della narrazione: la necessità di dire tutto senza spiegare, di dire semplicemente raccontando.

Marco Conti

Sebastiano Vassalli, Il mestiere di Omero. Come scrivere per raccontare storie, (a cura di Roberto Cicala), pp. 89, Interlinea, 2022, euro 14,00

 


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Houellebecq, la poesia e la fisica quantistica

Michel Houellebecq ama la poesia. Ma come ogni poeta detesta i cliché. Forse per questo il primo articolo compreso nel volume Interventi è un vigoroso attacco alla fortuna di Jacques Prévert.  Prévert è presente nei libri di scuola, è entrato nella prestigiosa “Pléiade” e soprattutto rappresenta  un’idea di poesia condivisa, facile, fatta spesso di giochi di parole. Evocando quel mondo lirico, Houellebecq scrive: «Ci sono graziose ragazze nude, borghesi che sanguinano come maiali sgozzati. I bambini sono di una simpatica immoralità, i mascalzoni seducenti e virili, le graziose ragazze nude offrono il proprio corpo ai mascalzoni; i borghesi sono anziani, obesi e impotenti, insigniti della Legion d’onore con mogli frigide; i parroci sono vecchi bruchi disgustosi che hanno inventato il peccato per impedirci di vivere. Conosciamo bene tutto questo. E’ preferibile Baudelaire.» L’autore di Estensione del dominio di lotta non sopporta in sostanza la mediocrità, un vocabolario di trasgressioni passato ormai agli archivi della buoncostume, il surrealismo da chansonnier. «L’intelligenza non aiuta affatto a scrivere belle poesie – commenta – tuttavia  può evitare di scriverne di pessime.»

Scrittore combattuto da una visione catastrofica dell’Occidente di questo XXI secolo, altrettanto deciso a contestare la bugiarda proiezione di un futuro migliore dell’imperante credo liberista tanto nella narrativa che in questi articoli,  Houellbecq è tuttavia interessato al linguaggio lirico fin dagli esordi.  Nel 1991 pubblica un saggio su Lovecraft e una prosa frammentaria, Rester vivant, dove  l’interesse per la poesia si unisce a una visione schopenhaueriana: «Il mondo è sofferenza dispiegata. Alla sua origine, c’è un nodo di sofferenza. Ogni esistenza è espansione e frantumazione.» E altrove: «Il primo passo della poesia consiste nel risalire all’origine. Vale a dire alla sofferenza». Ma proprio per avversione ai cliché, al modernismo, al Rimbaud condiviso di «occorre essere assolutamente moderni», scrive a questo proposito: «Non vi sentite obbligati ad inventare una forma nuova. Le forme nuove sono rare. Una per secolo è già molto. E non sono necessariamente i poeti più grandi ad esserne l’origine.» Visione che dovrebbe essere più insistita davanti ai molti autori di cruciverba in versi.

La bontà contro i sistemi

Il senso della lotta, nel 1996, intercala strofe in alessandrini rimati a stralci di prosa. Vi si fa strada il disagio, un sentimento di non appartenenza legato alla vita contemporanea: «Le antenne della televisione,/ come insetti ricettivi,/ s’aggrappano alla pelle dei prigionieri/i prigionieri rientrano a casa».
La leggibilità del verso di Houellebcq  non fa velo però a una sostanziale presa di posizione per il linguaggio alogico della lirica moderna. In un colloquio con Jean-Yves Jouannais e Christophe Duchâtelet  dove gli interlocutori chiedono quali sia l’elemento unificante dei suoi primi libri (Estensione del dominio di lotta, Restare vivi e la nuova raccolta di poesie La ricerca della felicità), Houellebecq, non ha esitazioni: «In primo luogo, credo, l’intuizione che l’universo sia fondato sulla separazione, sulla sofferenza e sul male; la decisione di descrivere questo stato di cose, e forse di superarlo. Il problema dei mezzi – letterari o no – è secondario. L’atto iniziale è il rifiuto radicale del mondo così com’è; nonché l’interesse per le nozioni di bene o male, la volontà di approfondire tali nozioni, di delimitare la loro egemonia, anche all’interno di me stesso.» In questo contesto, Houellebecq dice di rifiutare i sistemi gerarchici fondati sulla nascita o la fortuna, la bellezza o la forza fisica, l’intelligenza o il talento…«Tutti sistemi che ai miei occhi hanno qualcosa di spregevole; sistemi che rifiuto; l’unico fattore di superiorità che riconosco è la bontà. Oggi ci dibattiamo dentro un sistema a due dimensioni: l’attrazione erotica e il denaro. Da lì deriva tutto il resto, la felicità e l’infelicità delle persone.» La bontà dunque. Una sortita inattesa in un mondo che  sembra collocare la bontà con le preghiere del mattino. Tant’è che, nell’articolo successivo, Houellebecq conferma di essere stato interpellato in proposito. Non ne discuterà in dettaglio, ma l’impressione è che la bontà sia la virtù citata come contraltare di un secolo disposto ad accoglie e omogeneizzare anche il cinismo se condito da un appropriato bon ton ovvero di politically correct.

I quanti di Bohr e la  poesia

Scorrendo le pagine di Interventi, tra un testo che accompagna un’installazione mobile al Centre Pompidou di Parigi, gli apprezzamenti antieuropeisti e un conservatorismo distante da ogni idea corrente e scontata,  il tema della poesia si precisa ulteriormente con l’analisi del linguaggio svolta da Jean Cohen: «La poesia non è la prosa più qualcos’altro, è altro». Non è solo la moltiplicazione di significati, non la trasparenza di un significato soggiacente, ma piuttosto una «parola differente in relazione alla medesima realtà». Una lettura che propone in definitiva una diversa visione del mondo, alogica, rispetto alla lingua ordinaria:  Secondo Michel Houellebecq questo linguaggio ha un significativo punto di contatto con le proposizioni del fisico Niels Bohr in merito alla teoria dei quanti. «La poesia è la dimostrazione che l’impiego sottile e in parte contraddittorio del linguaggio comune aiuta a superarne i limiti. Il principio di complementarietà introdotto da Bohr è una sorta di gestion fine della contraddizione».
In termini più dettagliati, l’interpretazione del mondo referenziale può migliorare introducendo più punti di vista nello stesso tempo. La poesia, conclude lo scrittore, non è l’assurdo ma «l’assurdità resa creatrice».

Marco Conti
Michel Houellebecq, Interventi, pp. 476, La nave di Teseo, 2022, euro 22,00.

 


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Storie, storia e fiabe nell’Europa dei vagabondi

In una fiaba francese, I due viaggiatori, compaiono due soldati ormai in congedo che tirano ai dadi per stabilire chi dei due deve farsi cavare gli occhi. Il più fortunato farà l’accompagnatore del cieco ed entrambi potranno così mendicare con successo. Si direbbe un prezzo molto alto per un mestiere …

Con Griffi sulle ferrovie del Messico

Una mappa ideale del romanzo “Ferrovie del Messico”

«I tedeschi trascinavano il corpo morto dell’Italia furibondi come Achille sotto le mura di Troia, non avevo notizie di Firmino da quando era tornato dalla Russia, mia madre cucinava pietanze che sapevano di polvere e a me restava una settimana per realizzare una mappa ferroviaria del Messico.»

Nel febbraio 1944, Francesco Magetti, detto Cesco, milite della Guardia ferroviaria nazionale di Asti, ha un indomabile mal di denti e un compito tanto perentorio quanto folle: disegnare una mappa delle ferrovie del Messico. L’ordine arriva dal comando di Torino e questo dal comando tedesco che esegue un imperativo categorico di Berlino. Lo spunto narrativo su cui  Gian Marco Griffi scrive circa ottocento pagine sembra esile ma da qui si diramano le voci dei personaggi  e, con loro, decine di storie che intrecciano la sorte del protagonista consegnandoci un romanzo che, nella narrativa italiana di questi anni,  vive in splendida solitudine. Griffi costeggia e cita talvolta esplicitamente alcuni capitoli della letteratura più innovativa del Novecento, avvicinandosi e distanziandosi in questo modo a diversi registri letterari. Non per nulla la postfazione di Marco Drago parla di «romanzo enciclopedico»  chiamando in causa la letteratura postmoderna e il saggio sulla molteplicità di Italo Calvino nelle pagine delle Cinque lezioni americane.

I personaggi e le voci

Calvino  inscrive nella sua analisi una sequenza di esperienze  eterogenee: dal Flaubert di Bouvard et Pécuchet alle diverse scritture che convivono nell’Ulisse di  Joyce  e, avvicinandoci a noi, al mondo di Jorge Luis Borges e all’espressionismo stratificato,  tra lingua colta e dialetto, di Carlo Emilio Gadda.  Ora Griffi, come Joyce, cambia registro di capitolo in capitolo, passa da quello mimetico  e monologante 1, a quello lirico 2, dalla descrizione metaforica e surreale 3 al comico 4, alla lingua d’invenzione 5 e al grottesco con brani che lo avvicinano in un paio di occasioni ad un autore per nulla canonico come Boris Vian.  Ferrovie del Messico utilizza inoltre  tanto il lessico piemontese quanto la locuzione preziosa o  aulica ma lascia prevalere una sorvegliata, comune, lingua d’uso. Questa continua variazione di registro  è però subordinata a un immaginario singolare. Lo scrittore astigiano connette l’espansione della sua storia (Francesco Magetti alle prese con la carta ferroviaria del Messico) alle avventure di profili improbabili: una colta bibliotecaria borderline, due necrofori con un passato di picari in Sudamerica, un bibliofilo aristocratico, due disertori,  un sedicente poeta che classifica la rilevanza degli autori in base al loro suicidio, un impiegato tedesco troppo ligio al dovere, un profilo di Hitler guancia a guancia con Eva in cerca dell’arma letale e risolutiva in una visione del Terzo Reich iù vicina al teatro di Ubu Roi  che a qualsiasi nozione storica. Ma proprio questo è il luogo d’elezione del romanzo. Le avventure tragicomiche di Cesco Magetti con le diversioni e i sentieri intrapresi dalla sua umanità, vivono nel cuore di un immaginario che – attraverso citazione e parodia 6, attraverso la frammentazione dei registri – sembra scaturire da un sentimento di nostalgia per le storie, o meglio… per la tradizione, in una parola per il canone.

Picari, anarchici, poeti

La libertà con cui lo scrittore percorre i sentieri della narrazione scorre  parallela alla libertà dei suoi personaggi: dal protagonista investito dal compito assurdo di redigere una mappa ferroviaria,  all’impiegato tedesco Bardolf Graf che riceve in regalo un libro intitolato  Storia poetica e pittoresca delle ferrovie del Messico, tutti sono in conflitto con l’ambiente circostante. La galleria di Griffi convoca un mondo di emarginati e anarchici per vocazione che marciano sull’orlo del baratro. Il contesto storico, tratteggiato a larghe pennellate, ritrae la precarietà della guerra e dell’invasione, ma è di pari passo caratterizzato da contesti immaginari di cui è esempio eloquente la “Divisione ferroviaria del dipartimento suicidi statali assistiti” nella Berlino del 1943, vale a dire  unna caricatura della burocrazia.

Sulle tracce degli antecedenti che portano il comando tedesco a richiedere una mappa delle ferrovie messicane, l’autore spalanca dunque una porta che, trascorrendo dal comico al surreale, declina l’architettura goffa e pretenziosa del potere. La Divisione ferroviaria tedesca è un palazzo «composto d’un numero indefinito e forse infinito, di piani ottagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, circondati da ballatoi con ringhiere intarsiate a mano» dove si può scoprire l’esistenza di un “Ufficio per il controllo dei regali ai dipendenti”. Il contraltare di tanta architettura sarà invece il club clandestino dell’Aquila agonizzante dove nottetempo si incontra l’umanità di resistenti e fuggitivi astigiani.

Assurdo e postmodernità

Tirando le fila del romanzo, disperse tra le sorti dei personaggi,  le nozioni di assurdo e di comico si legano alla ricchezza del linguaggio e delle storie che si ritagliano capitolo dopo capitolo. Ma vale la pena di soffermarsi sulle implicazioni della scrittura di Griffi. Guido Almansi, citato in postfazione, parlò del romanzo postmoderno di Thomas Pynchon dicendo che esso deve contenere una «analisi dello sfacelo, la coscienza del collasso, una testimonianza della frammentazione, una critica radicale del concetto di verità». Sembra una descrizione parziale dell’atmosfera e del modo di procedere di Ferrovie del Messico. Parziale perché i registri usati e i punti di vista  (si parla in prima persona o in terza e a raccontare sono tanto i personaggi contemporanei alla vicenda quanto quelli citati e vissuti in un tempo precedente) trovano un accordo unanime nel disegno complessivo, nel piacere dell’affabulazione in sé e nella nostalgia di un tempo capace di produrre avventura. E’ forse anche ciò che si avverte in certe pagine di Roberto Bolaño, in qualche caso (I detective selvaggi) analogamente segmentate. Ma i luoghi d’elezione della postmodernità si identificano altrove: in Rayuela di Cortázar, nel Georges Perec di La vie mode d’emploi , nel Calvino de Il castello dei destini incrociati  dove è sempre qualificante la leggerezza del gioco combinatorio: pagine dove intelletto e immaginario vivono, algidi, lontano dalla fisicità e dall’emozione e dall’esperienza. Rispetto a quest’ultima biblioteca ideale Gian Marco Griffi  si smarca. Le sue pagine richiamano una fisicità fortemente connotata e referenziale;  l’eterogeneità delle voci non si offre mai come gioco intellettuale o digressione concettuale.  Il registro del comico convive con l’iperbole dell’immaginario, il “parlato” include tanto lo gnommero di Gadda e le preziosità quanto il lessico piemontese (un glossario esemplificativo vi include: il gheddu, cioè il guizzo intellettuale; rancare per estirpare;  frustacadreghe per pigrone). E come una promessa di poetica, uno dei suoi personaggi, Tilde, dice: «Essere lirici e ironici è la sola cosa che ci protegge dalla disperazione assoluta. Io abito il mio lirismo, Cesco, per continuare ad amare la vita».

Griffi ci suggerisce di amare la narrazione come le ama lui. Scrive per Ferrovie del Messico  un sottotitolo esplicito: Romanzo d’avventura; insiste sulla centralità dell’atto narrativo nella sua valenza più essenziale. E in questo contesto scrive la pagina conclusiva del romanzo qualificandola come “Seconda parte”.  Venti righe, non di più, in cui l’autore annuncia la prosecuzione  delle vicende in Messico, in Argentina  e altrove.  Griffi insomma è ben lontano dal fornire una riproposta della narrazione postmoderna. Ferrovie del Messico viceversa ne usa la strategia e alla biforcazione del sentiero prende una strada affatto diversa. Di questo romanzo sentiremo parlare a lungo.

Marco Conti

Gian Marco Griffi, Ferrovie del Messico, pp. 816, Laurana Editore, 2022; euro 22,00

*

1. «E insomma hanno ordinato per me un panino al prosciutto, senza neppure sapere se mi piacesse, il prosciutto, fortuna che ne sono ghiotto, e me lo hanno fatto mangiare in santa pace, mentre lo mangiavo ho pensato a cosa significasse essere un tipo solitario, ma quello che teneva la sigaretta spenta ha interrotto il flusso dei miei pensieri». Pag. 87

2. «(…) è il cinquantadue e nascosta in soffitta leggi un’altra cartolina mentre Dio ha fatto un temporale che esplode sopra i tetti, i tuoni rimbalzano sulle tegole come palloni calciati dalla luna, il vento uggiola tra le imposte e strilla tra le chiome degli alberi, le travi cigolane e le voci umane si confondono nel battito martellante della grandine sui coppi e sui teloni della serra». Pag. 283

3. «Mario Emilio Camillo Bertone venne al mondo il sedici dicembre, mercoledì, una notte che la luna era simile a un seme di girasole, accanto a un fiume dispiegato nella bordura delle colline; si narra fu accolto nelle pianure ubriache di vino fumante e perforato dal trapano dell’amore, in cinque minuti scarsi fu strappato dall’ombra, venuto nel mutismo delle allodole e delle cicale, nel mortorio degli insetti, subito fu braccato dal freddo e lambito dai lupi». Pp. 336-7

4. «Questa cosa del Partito nazionalsocialista, domandò Eva, è un lavoro vero? Talvolta me lo chiedo anch’io, disse Adolf. E mi rispondo che no, non è un lavoro. Eì una vocazione. Baciami, testone, disse Eva».p. 224

5. «Allora ho inforcato le barde di mocoletto e mi sono sporto per allumarla meglio, e che i viscosi (…)» P. 139

6. «E allora adiόs, mi querida Norah, adiόs, lascia che vada ora, per certi angiporti celati da cespugli di lentischi spinosi, e siepi di cosmee gialle e azzurre, mil veces adiόs, lascia che viva in sbandati ricoveri nelle stanze pulciose di motel fuori mano dove misuro la mia vita con palle da tennis squarciate e bicchieri vuoti (…) ». P. 624. Griffi fa la parodia dei primi celebri versi de “Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock” di  T.S. Eliot nella traduzione di Roberto Sanesi:  

«Allora andiamo, tu ed io,

Quando la sera si stende contro il cielo

Come un paziente eterizzato disteso su una tavola;

Andiamo, per certe strade semideserte,

Mormoranti ricoveri

Di notti senza riposo in alberghi di poco prezzo

E ristoranti pieni di segatura e gusci d’ostriche (…)»

Tempo d’opera, l’ultimo libro di Alberto Toni

I frammenti della vita, il paesaggio visto una volta da un balcone, una domanda che sopravviene improvvisa e subito si mescola con il vissuto, con l’incedere quieto di una passeggiata: un sasso, un uccello sulla via, una soglia: tutto nella poesia di Alberto Toni diviene misura della finitudine, tema di …

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