Addio a Lapierre, autore della “Città della gioia”

«Tutto ciò che non viene donato va perduto». Questo proverbio indiano Domenique Lapierre lo ha posto in epigrafe del suo romanzo più letto, La città della gioia; figura nell’intestazione della associazione per i bambini lebbrosi della città di Calcutta della fondazione Lapierre e fa da scorta al conto corrente che compare nell’ultima pagina del libro, più volte ristampato in gran parte dei paesi per un totale di oltre 10 milioni di copie vendute.  Dominique Lapierre, morto sabato scorso a 81 anni, è stato fin dai suoi esordi uno scrittore fedele al suo proverbio indù e fedele alle sue origini di cronista. Nato in Francia si era diplomato al college Lafayette in Pennsylvania. La versatilità in due lingue (quella materna, francese e quella acquisita negli Usa) gli fu indispensabile per scrivere a quattro mani con Larry Collins i suoi primi libri, Parigi brucia?, un’ inchiesta sui fatti inerenti l’ordine disatteso di Hitler di mandare in fiamme l’intera metropoli; Gerusalemme!Gerusalemme!, sulla nascita dello Stato di Israele e Stanotte la libertà, sull’indipendenza finalmente raggiunta dall’India. Ognuno dei due autori scriveva un capitolo e lo passava all’altro che lo traduceva, ottenendo così alla fine  due versioni contemporanee. Del resto entrambi erano giornalisti, il primo inviato negli Stati Uniti per “Paris Match” e Collins (scomparso nel 2005) corrispondente da Parigi per “Newsweek”. Ma proprio il viaggio in India, l’incontro con Madre Teresa di Calcutta, l’immersione in un mondo fino a quel momento insospettato, poverissimo ma in certo modo “magico”, cambiò le sorti di Lapierre anche se la collaborazione continuò più avanti per numerosi libri.

Dominique Lapierre, Chtâellaion-Plage 1931-Sainte-Maxime, 2022)

Un viaggio in treno

Dopo Stanotte la libertà, Dominique Lapierre decise di approfondire la sua conoscenza dell’India e comprò un biglietto per la tratta ferroviaria che unisce New Dely a Calcutta. Era un biglietto di terza classe e forse cominciò proprio in quei giorni a impadronirsi del bengalese. Era interessato a comprendere le ragioni dei conflitti presenti nella società indiana tra induisti e musulmani, ma soprattutto aveva occhi per le condizioni di vita materiale e spirituale. Non a caso, dopo la pubblicazione della Città della gioia e di L’arcobaleno nella notte, la metà dei proventi dei diritti d’autore saranno devoluti alla sua associazione per i bambini lebbrosi di Calcutta e per costruire gli ospedali ospitati su grandi barconi che navigano sul Gange. Sulle barche ci si occupa per lo più di malati ormai giunti alla fine del percorso ma per la religione  induista morire nel corpo vivo della madre Ganga, le acque del fiume, consente di liberare la propria anima dal ciclo delle rinascite per ottenere la liberazione, al di là del velo di Maja.

La città della gioia dopo pochi anni permetterà a Lapierre e alla moglie Dominique di creare quattordici centri di soccorso per i bambini. Quando nel 1984 il disastro di Bho causò circa 16 mila morti, Lapierre scrisse con il nipote, Javier Moro il libro-documento Mezzanotte e cinque a Bhopal, e anche in questo caso le risorse dei diritti d’autore furono dirottate per questa causam così come accade per i film tratti dalle sue opere, quella più conosciuta e quello di Kevin Connor, dedicato Madre Teresa di Calcutta con Geraldine Chaplin nel 1997.

La città della gioia

Il lavoro giornalistico, la collaborazione con Larry Collins, i libri-inchiesta, non esauriscono la versatilità dello scrittore francese. La città della gioia è  romanzo in cui Lapierre fa risuonare in ogni pagina un registro proprio, un timbro che sembra voler ricalcare le epopee della storia antica senza per questo dissolvere la realtà più aspra.  La narrazione riunisce tre personaggi che il caso ha portato nella baraccopoli di Calcutta che dà nome al romanzo: un contadino che ha avuto il raccolto devastato da un’inondazione, un missionario francese e un medico statunitense. L’alter-ego di Lapierre dimidiato e moltiplicato tra i contadini indiani o nelle bidonville,  racconta la quotidianità a una latitudine in cui il quotidiano ha risonanze che compendiano mistica e desolazione o, al contrario, ritagliano effetti di comicità e distacco:

«Mangiavano tutti con le dita della sola mano destra. Ci vuole una bella ginnastica per fare delle palline con il riso e tuffarle nella salsa senza che si sbriciolino. E senza bruciarsi le dita fino all’osso. Quanto alla bocca, l’esofago e lo stomaco, che fuoco con quelle spezie micidiali! Dovevo essere uno spettacolo piuttosto comico, perché tutti i clienti del caffè si piegavano in due dal ridere. Non capita tutti i giorni che si possa ridere di un povero sahib che ha intrapreso la conquista del diploma d’indianizzazione.» (trad. Elina Klersy Imberciadori, ed. Mondadori, 1985). Un libro che, infine, anche nel tempo che verrà farà da scorta alla storia indiana ed europea.

François Morane

 

 


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