Chi come me conduce corsi di Scrittura Creativa deve confrontarsi lungamente con alcuni cliché legati all’attività letteraria e artistica. Spesso chi vorrebbe scrivere, come chi già lo fa con serietà, crede pregiudizialmente che doti naturali, cultura e ispirazione (qualsiasi cosa voglia dire questo sostantivo) costituiscano, accanto ad alcune lezioni teoriche, il passaporto per produrre almeno discrete pagine di invenzione. Certo le doti, la capacità di immaginare e confrontarsi col passato e il presente sono essenziali, ma è davvero tutto?
La mia impressione è che il moltiplicarsi di sigle editoriali, così come dei corsi di Scrittura, accanto ai relativi successi di diversi autori oggi in libreria, non facilitino l’autore o perlomeno il potenziale autore.
Raccontandosi in Perché scrivere? (Einaudi, 2018) Philip Roth fornisce un banco di confronto decisamente autorevole. Non solo. Perlustrando qui e là le interviste ho prelevato alcuni passi dove lo scrittore spiega e racconta temi e nodi strutturali della creazione letteraria; temi non ascrivibili semplicemente alla sua esperienza; nodi strutturali che formano altrettante tappe dei corsi di Scrittura Creativa: la creazione del personaggio, le incertezze davanti all’incipit, l’importanza di azzeccare il tono adeguato, i problemi psicologici che possono accompagnare la stesura del testo e…l’assiduità, il lavoro in sé.
m.c.

Iniziare un nuovo romanzo
«Cominciare un libro è sgradevole. Ho grandi incertezze sul personaggio e la situazione, e quello che mi serve per cominciare è un personaggio nella sua situazione. Peggio ancora che non conoscere il tuo tema è non sapere come trattarlo, perché alla fine sta tutto lì. Batto a macchina degli incipit e sono orrendi, sembrano un’inconsapevole parodia del mio libro precedente, più che l’imbocco di una nuova direzione che è quello che vorrei. Ho bisogno di qualcosa che mi conduca al centro del libro, una calamita che attragga tutto a sé – è questo che cerco nei primi mesi in cui sto scrivendo qualcosa di nuovo. Spesso devo scrivere un centinaio di pagine, o anche più, perché venga fuori qualcosa di vivo. Okay, mi dico a quel punto , questo è l’inizio partiamo da qui; e quello diventa il primo paragrafo del libro. Poi riprendo in mano i primi sei mesi di lavoro e sottolineo in rosso un paragrafo, una frase, a volte anche solo un’espressione, che abbiano un po’ di vita, e li ricopio su un’unica pagina. Di solito ci sta tutto in una pagina, ma se sono fortunato quello è l’inizio della pagina uno. Per stabilire il tono cerco qualcosa che sia vivo.
Dopo questa tremenda fase iniziale vengono i mesi di divagazioni a ruota libera, e dopo le divagazioni arriva la crisi, la rivolta contro il materiale che ho scritto e l’odio per il libro.»
Dialogo e narrazione
«Non si deve trovare necessariamente un equilibrio tra dialogo e narrazione. Si va dietro a quel che è vivo. Per uno scrittore possono funzionare duemila pagine di narrazione e sei righe di dialogo, per altro duemila pagine di dialogo e sei righe di narrazione.»
La narrazione può diventare dialogo e viceversa
Roth sostiene di averlo «fatto con la sezione Anna Frank nello Scrittore Fantasma. All’inizio non funzionava. L’avevo scritta in terza persona, ed era come se trattassi il materiale con riverenza. Stavo assumendo un altisonante tono elegiaco nel narrare la storia di Anna Frank che sopravviveva e arrivava in America (…) Alla fine il tema dello Scrittore Fantasma è diventato proprio questo: le difficoltà insite nel raccontare una storia ebraica. Come dovrebbe essere raccontata? In che tono? A chi? A che fine? Non sarebbe meglio non raccontarla affatto? Ma a quanto pare, perché potesse diventare un tema, doveva partire con un travaglio. Succede spesso, almeno a me, che nelle prime, incerte fasi della scrittura i conflitti da cui avrà origine la vita morale del libro vengano ingenuamente scaricati sul corpo del libro. In questo consiste il travaglio, e si è concluso quando ho preso l’intero brano e l’ho rifatto in prima persona: la storia di Anne Frank narrata da Amy Bellette. La vittima non avrebbe parlato delle proprie traversie con la voce di un cinegiornale. Non l’aveva fatto nel Diario, perché avrebbe dovuto farlo nella vita? (…)» Liberatosi dalla cadenze solenni, della dizione tetra, grazie alla finzione della narrazione di Ami Bellette, a quel punto «ho rimesso tutta la sezione in terza persona, e da quel momento sono riuscito a lavorarci su – a scrivere, invece di declamare o riverire.»
In merito alla facilità di scrivere
«A volte all’inizio capisci che non sei sulla strada giusta non perché scrivere ti viene difficile, ma perché ti viene troppo facile. La fluidità può essere un segno che non sta succedendo niente (…) Quello che mi spinge ad andare avanti è la sensazione di avanzare a tentoni da una frase all’altra».
Assiduità
«Lavoro per tutto il giorno, mattina e pomeriggio, praticamente ogni giorno. Se continuo seduto così per due o tre anni, alla fine ho un libro.»
L’aiuto della lettura
«Quando lavoro leggo sempre, di solito la sera. E’ un modo per tenere aperti i circuiti. E’ un modo per pensare al mio lavoro prendendomi un po’ di respiro dalla cosa a cui sto lavorando. Aiuta nella misura in cui alimenta l’ossessione dominante.»
Confronto durante la scrittura
«Mentre scrivo basto io a fornirmi tutta l’opposizione di cui ho bisogno, e gli elogi non mi servono a niente quando so che una cosa non è ancora a buon punto.»
Il personaggio
«Nathan Zuckerman (il protagonista di molti romanzi di Philip Roth ndr) è una messinscena. E’ l’arte della personificazione, il dono fondamentale del romanziere. Zuckerman è uno scrittore che vuole essere un medico che si spaccia per un pornografo. Io sono uno scrittore che scrive un libro in cui mi spaccio per uno che vuole essere un medico che si spaccia per un pornografo – che a sua volta, per confondere la personificazione, per renderla più graffiante, finge di essere un noto critico letterario. Costruire una falsa biografia, una storia fasulla, escogitare un’esistenza semi-immaginaria a partire dai reali accadimenti della vita è la mia vita. In questo mestiere deve pur esserci del piacere, e il mio è questo. Andarmene in giro travestito. Interpretare il personaggio. Farmi passare per un altro che non sono. Fingere. Una mascherata astuta e perversa. Pensa a un ventriloquo. Parla in modo tale che la sua voce sembra provenire da qualcun altro. Ma se non ce l’hai davanti agli occhi la sua arte non ti procura alcun piacere. La sua arte consiste nell’essere presente e assente al tempo stesso (…) Come scrittore, per dedicarti all’arte della personificazione non devi per forza accantonare la tua biografia. Può essere più interessante non farlo. La distorci, la ridicolizzi, la scimmiotti, la torturi e la sovverti, la sfrutti…Tutto per conferire alla biografia quella dimensione che stimolerà la tua vita verbale (…) Céline fingeva di essere un medico insensibile, addirittura irresponsabile, mentre a quanto pare era molto coscienzioso e prendeva a cuore i pazienti. Ma quello non era interessante.»
Ancora sulla personificazione: Genet, Beckett, Colette, Gombrowicz
«La letteratura non è un concorso di bellezza morale. La sua forza dipende dall’autorevolezza e dall’audacia con cui è credibile. La domanda da porsi riguardo allo scrittore non è Perché si comporta così male? ma Cosa ci guadagna indossando quella maschera? Io non ammiro il Genet che Genet presenta come se stesso più di quanto ammiri il repellente Molloy impersonato da Beckett. Ammiro Genet perché scrive libri che non mi permettono di dimenticare chi è quel Genet. Quando stava scrivendo su Agostino, Rebecca West ha detto che le sue Confessioni erano troppo soggettivamente vere per poter essere oggettivamente vere. Credo che lo stesso valga per i romanzi in prima persona di Genet e Céline, e anche per Colette in libri come L’ancora e La vagabonda. Gombrowicz ha scritto un romanzo intitolato Pornografia in cui lui compare come un personaggio, col proprio nome – per meglio mostrarsi complice di alcuni comportamenti molto equivoci e scatenare così il terrore morale.»
Insicurezza o crisi alla fine dell’opera narrativa
Roth dice che nella sua esperienza la crisi al termine del romanzo è puntuale. «Mi dico: Questo non va…ma cos’è che non va? E mi chiedo: Se questo libro fosse un sogno, che sogno sarebbe? Ma mentre mi faccio queste domande sto anche cercando di credere in quello che ho scritto, di dimenticare che è solo un libro e dirmi: Questo è successo davvero, anche se non è così L’idea è percepire la tua invenzione come una realtà e che può essere letta come un sogno.»
Psicoanalisi e scrittura
«Se non avessi fatto l’analisi, non avrei scritto Lamento di Portnoy come l’ho scritto, né La mia via di uomo come l’ho scritto e anche Il seno sarebbe stato diverso. E anch’io sarei stato diverso. Probabilmente l’esperienza della psicanalisi mi è servita più come scrittore che come nevrotico, sebbene questa sia forse una falsa distinzione.»
Utilità della letteratura
«Per il lettore normale? I romanzi danno ai lettori qualcosa da leggere. Al più, gli scrittori cambiano il modo di leggere dei lettori. Questa mi sembra l’unica aspettativa realistica. E mi sembra più che sufficiente. Leggere romanzi è un piacere profondo e singolare, un’attività umana avvincente e misteriosa che non richiede maggiori giustificazioni morali o politiche di quante ne richieda il sesso.»
Estrapolazione dall’intervista della Paris Review realizzata da Hermione Lee, biografa di Roth; in Philipp Roth, Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti (1960-2013) Einaudi, 2018
La narrativa come strumento: cambiare il mondo o conoscerlo?
«La considero uno strumento per conoscere il mondo come altrimenti non potrebbe essere conosciuto. Si possono conoscere un sacco di cose sul mondo senza l’aiuto della narrativa, ma nient’altro può fornire il tipo di conoscenza prodotto dalla narrativa perché nient’altro trasforma il mondo in narrazione. Quel che si conosce leggendo Flaubert o Beckett o Dostoevskij non sono idee innovative a proposito dell’adulterio o della solitudine o dell’omicidio – quello che si conosce sono Madame Bovary, Molloy, Delitto e Castigo. La narrativa dipende da uno strumento di conoscenza unico, l’immaginazione, e il suo sapere è inseparabile dall’immaginazione. (…) Va tenuto presente che i romanzi non si rivolgono solo alla mente, ma instillano una consapevolezza più ampia, e per questo sono uno strumento per conoscere il mondo come altrimenti non potrebbe essere conosciuto.»
Brano estrapolato da Intervista su Zuckerman. Intervistatori Asher Z. Milbauer e Donald G. Watson per Reading Philip Roth (St. Martin’s Press, 1988).
da Philipp Roth, Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti (1960-2013), traduzione Norman Gobetti, Einaudi, 2018 L. 22, 00 — ISBN 978-88-06-23854-

I titoli dei paragrafi utili a introdurre gli argomenti sono nostri.